martedì 28 giugno 2011

Il sentiero di Dürer.





C'è sempre una buona ragione per andare a camminare in montagna.
Ottima, se questa ragione si chiama Albrecht Dürer.

Il sentiero di Dürer, tra le province di Trento e Bolzano, l'ho scoperto qualche mese fa, quando ho ritrovato questa immagine.



Se non ci fosse stato il monogramma AD, la sigla del pittore, sarebbe stato davvero difficile pensare che questo paesaggio alpino, con il lago blu, che si intravede tra gli alberi nella luce di un tramonto, fosse stato eseguito intorno al 1495.

Eppure si tratta di uno degli acquerelli che Dürer dipinse, più di cinquecento anni fa, attraversando le Alpi, nel corso del suo primo viaggio in Italia, il primo compiuto da un artista tedesco. 
Il lago che raffigura è, probabilmente, il lago Santo nella valle di Cembra.
La composizione è così libera e l'esecuzione talmente immediata che non è possibile trovare niente di simile nella pittura europea dell'epoca e, forse, solo nelle stampe giapponesi si può vedere una sintesi e un'immersione nel paesaggio pari a questa.

Dürer aveva, allora, ventiquattro anni, era ambizioso, cosciente di sè, elegante, ben curato e non privo di mezzi. 
Lasciava a Norimberga una bottega ben avviata e una moglie, sposata da pochissimo, ma il richiamo dell'Italia era troppo forte.
Il desiderio di visitare l'Italia, dove erano ancora visibili le tracce dell'antichità classica e dove era stata inventata la prospettiva, doveva essere irresistibile. 
Era il paese, di cui si favoleggiava per il lusso e la magnificenza del vivere e in cui gli artisti avevano raggiunto vette inarrivabili.
Dürer sognava, soprattutto, di Venezia: conosceva di fama i pittori che vi lavoravano e pensava che un soggiorno là gli avrebbe consentito di confrontarsi con un modo di dipingere più "moderno", confermando la sua reputazione di pittore colto e preparato.

Le voci di un' epidemia di peste furono un ottimo pretesto per allontanarsi da Norimberga e dirigersi, finalmente, verso Sud.
Per arrivare a Venezia si era aggregato, a un gruppo di mercanti, abituati a percorrere, a piedi o a cavallo, strade battute e sicure. Per raggiungere la valle dell'Adige, aveva valicato, come ancora oggi si usa, il passo del Brennero .
Era il percorso più diretto, ma un'inondazione del fiume all'altezza dei laghetti di Egna, glielo impedì e dovette utilizzare una via alternativa, passando dalla valle di Cembra, fino ad arrivare a Segonzano.

Dürer portava con sé carta da disegno e acquarelli, i colori più maneggevoli e facili da usare. Li avrebbe utilizzati, per la prima volta, per dipingere direttamente all'aperto e con una libertà totale.

Non possiamo, certamente, sapere quali pensieri gli affollassero la mente durante il cammino; negli schizzi che fece rimane, però,  una testimonanza di quello che vide e un'eco delle emozioni che provò.
La prima sensazione fu quella di una luce, diversa da quella a cui era abituato, una luce più intensa, più calda. E il paesaggio gli parve avvolto da una luminosità, che, fino ad allora, non aveva conosciuto.



Come in questa veduta della valle di Cembra, dove indaga il gioco dei colori e il loro variare con la luce
















Oppure in questa del castello di Segonzano, dove si fermò  per qualche giorno.










Sono schizzi spontanei, veloci, utili, forse, come un apppunto mnemonico da utilizzare  in pittura per qualche ambientazione paesistica.
Ma si ha l'impressione che l'artista abbia anche bisogno di fissare subito, su carta, il sentimento che la natura e la montagna gli provocano.

Seguendo la traccia degli acquerelli, ho trovato che la strada percorsa da Dürer, da Egna a Segonzano, è stata rimessa in ordine e segnalata da cippi col monogramma AD.

Il sentiero, ben riconoscibile, permette di seguirne il cammino e di ritrovare i luoghi del suo passaggio (qui é il link al sito )
Per chi lo percorrerà, in queste belle giornate di prima estate, sarà emozionante riscoprire ancora intatti i paesaggi raffigurati alla fine del Quattrocento e provare, a distanza di secoli, le stesse sensazioni e lo stesso stupore di fronte alla bellezza della natura.
È un sentiero da fare agevolmente, magari a tappe e senza dimenticare di portare con sè - non si sa mai - carta, colori e pennelli.






Riapro il post, dopo i commenti di Dede e di Marco, per aggiungere che, se non gli acquerelli, almeno la macchina fotografica è di rigore.
La gastronomia, anche se forse  filologicamente non corretta (ma chissà cosa avrà mai mangiato Durer? ) è assolutamente all'altezza del paesaggio e dell'artista.
Per chi vuole ripercorrere il sentiero di Durer: il link con il sito dell'APT Altopiano di Piné e Val di Cembra  è QUI.




mercoledì 22 giugno 2011

Dosso Dossi: Giove pittore






Sullo sfondo di un cielo tempestoso, un arcobaleno dorato rivela un paesaggio di alberi dalle foglie leggere. Giove, deposti i fulmini ai suoi piedi, seduto su un trono di nuvole, con le gambe accavallate, la tavolozza e i pennelli in mano, sta ritraendo tre farfalle variopinte in una tela  su un cavalletto.
Mercurio, con i piedi e il cappello alato, posato il caduceo al suo fianco, porta un dito alle labbra e intima il silenzio a una giovane donna, che sta, faticosamente, salendo sulle nubi dell'Olimpo.

Chi osa turbare la concentrazione del padre degli Dei?
È una fanciulla vestita di giallo, con fiori nei capelli, al collo e sulle braccia.
È la Virtù, secondo il racconto allegorico di Leon Battista Alberti, da cui è tratto il soggetto.
La Virtù arriva sull'Olimpo, trafelata, per protestare con Giove del trattamento che le riservano sia gli uomini, che la dea Fortuna. Si lamenta  che  è stata ad aspettare un mese intero alla porta, perché gli dei sono tutti "occupati nel far fiorire cetrioli e nel dipingere le ali delle farfalle".
Non sarà ricevuta: Mercurio la manderà via, dicendo che Giove non ha nessuna voglia di litigare, per colpa sua, con la Fortuna.

Ma non è questo l'unico significato del dipinto. 
La giovane donna non incarna solo la Virtù, ma è anche la personificazione dell'Eloquenza che cerca, con le parole, di far valere le sue ragioni con Giove.
E Mercurio, che  rappresenta il senso pratico, ad ogni modo, la zittisce, perché dipingere ali di farfalle non è un 'attività futile.
Riafferma, così, che la pittura, arte silenziosa, o “poesia muta”, come allora si diceva, è capace di far miracoli, fuori della portata della parola.

E Giovanni Luteri detto Dosso Dossi (1486?-1542), l'autore del dipinto, eseguito intorno al 1524, lo sa bene che la pittura può far miracoli.
Lui che ha conosciuto a Venezia Giorgione e Tiziano. Lui che passa la sua vita, tranne pochissime eccezioni, a Ferrara come pittore di corte. Lui che è capace, nei suoi dipinti, di rappresentare, come nessun altro, quelle storie  mitologiche, quelle favole e quelle fantasie, amate e richieste dagli Este e dall'aristocrazia ferrarese.
Sono spesso raffigurazioni sospese tra mito e ironia, tra favola e divertimento: un clima simile a quello che Ludovico Ariosto, anche lui poeta alla corte estense, fa rivivere, nello stesso periodo, nel suo Orlando Furioso.
Alla vita di corte, a quell'Olimpo domestico che è il palazzo ducale di Ferrara, allude la figura di Giove: il realismo delle fattezze fa pensare che si tratti di un ritratto del Duca Alfonso I,il committente del dipinto.

Un omaggio alle passioni del Duca, di sicuro, c'è.
I fulmini, ai suoi piedi, rossi come il metallo quando sta per fondere, alludono al suo interesse per l'artiglieria e per la metallurgia e alla sua passione per la pratica di trasmutar metalli per eccellenza: l'alchimia.
Ma sono soprattutto i dipinti e i pittori che Alfonso ama: per il suo “camerino” in castello, ha chiamato a Ferrara Giovanni Bellini e Tiziano. Da anni cerca di assicurasi opere di Raffaello e di Michelangelo.
E chissà che egli stesso non dipinga, nelle ore di “otium", necessarie per ritemprare la mente e i pensieri.

La passione per la pittura, “invenzione divina”, degna di un principe, è esaltata nel dipinto, fin dalla raffinatezza straordinaria dell'esecuzione.
C'è l'amore per il colore, per le sfumature, per i chiaroscuri. Ed è questa passione  che accentua gli effetti di evanescenza,che  si manifesta in dettagli come l'oro della tunica di Giove, che  illumina di luce i fiori della veste della Virtù, che aggiunge trasparenza al blu del cielo o al verde tenue delle foglie degli alberi.

Tutta la tela  è un'allegoria della pittura, del valore del dipingere.


Giove, il padre degli dei, così come il signore di Ferrara o  ogni artista, quando è intento alla sua attività, non va disturbato.

Sta creando.
Sta realizzando una bellezza effimera e gratuita, ma non per questo meno importante.
Usando i colori dell'arcobaleno tinge le ali variopinte e lievi delle farfalle.

La tela sul cavalletto, ha lo stesso colore del cielo, anzi, pare che ne abbia ritagliato uno spicchio per utilizzarlo come sfondo.


E le farfalle, appena tracciate, sembrano diventare vive e vere, tanto da potersi levare in volo.
Di fronte a questo prodigio  la Virtù è invitata al silenzio, l'Eloquenza deve tacere.
La fantasia creatrice trionfa e rivendica i suoi diritti.







venerdì 17 giugno 2011

Il Palazzo Reale di Bruxelles: Jan Fabre e la sala degli specchi.




Strano paese il Belgio: lo dico sempre.
Strana città Bruxelles, ma per questo mi piace.
Continuo a scoprirla e continuo a sorprendermi, sempre.

Qualche anno fa (nel 2002) fu creato un comitato, presieduto dalla regina Paola, per riportare l'arte contemporanea in Palazzo Reale, un pomposo edificio ottocentesco, in pieno centro, che serve come luogo per cerimonie, per  udienze e  visite di stato.
Un palazzo, in cui l'ultima opera d'arte ammessa, più di cent'anni fa, fu una scultura di Auguste Rodin.
Un'iniziativa meritoria, senza dubbio.
Si pensava che un comitato così ufficiale avrebbe scelto, per la sede più rappresentativa della monarchia e del paese, qualche quadro da piazzare qua e là sulle pareti, senza troppo disturbare l'arredo, o una o più sculture da mettere, sparse, nelle sale, magari di artisti di fama ben consolidata.
Invece, non è stato così.

Con una decisione inattesa e spiazzante hanno stabilito di chiamare, per primo, Jan Fabre, uno degli artisti belgi (è nato ad Anversa nel 1958), più poliedrici e più noti, ma anche  più contestati.
Lo si può vedere nel suo sito ufficiale, su wikipedia e nel  link che inserisco qui.

E che cosa ha fatto Jan Fabre?
Ha rivestito il soffitto e il grande lampadario della Sala degli Specchi, la più ampia del palazzo reale, con un milione e mezzo di carapaci di scarabei verdi, incollando una a una le piccole corazze degli insetti (ognuna delle quali misura circa due millimetri e mezzo).
"The heaven of delight", Paradiso di delizia, lo ha intitolato.

È stato un lavoro da certosini, che ha occupato una squadra di una trentina di persone per tre mesi, senza contare la fatica e l'impegno per procurarsi il materiale (e come abbiano fatto resta, tuttora, un mistero).
La regina stessa ha aiutato a incollare gli ultimi scarabei, quelli che formano, al centro, la P del suo nome.



Jan Fabre si proclama (anche senza prove certe) discendente del grande entomologo francese Jean Henri-Fabre e si dice ammaliato dal mondo degli insetti, soprattutto dagli scarabei, l'insetto re dell'antico Egitto.
È affascinato dal tema del corpo come guscio, dall'idea della metamorfosi, del passaggio del tempo, del confine tra la vita e la morte e crea, con i carapaci di questi insetti, inquietanti sculture.
Si definisce– l'umiltà non è uno dei suoi pregi- una sorta di dio, un entomologo demiurgo capace di creare essere ibridi.
Artista non facile- l'ho detto- dalle affermazioni provocatorie, messo in discussione da animalisti (c'è perfino un gruppo su Facebook che lo contesta) e da critici d'arte.
Comunque, sconcertante e per me straordinario.


Nella Sala degli Specchi la luce che entra dalle finestre si riverbera sulle corazze degli insetti, provocando dei riflessi che vanno dal verde al blu scuro.
La sala assume, allora, quasi un tono silvestre, da favola gotica in un'atmosfera sospesa tra sogno e incubo








L'effetto con gli specchi e gli stucchi bianchi è ammaliante. I colori cambiano a ogni movimento dei visitatori o ad ogni minima variazione luminosa.Se d'improvviso entra una luce è come se un'onda viva e cangiante percorresse tutto il soffitto.

Varia anche la percezione delle corazze degli insetti, che, ora, sembrano sottili e quasi disegnate, ora acquistano massa e profondità .




Il lampadario, al centro, visto dal basso, assume la forma di un esotico e prezioso animale.
L'impressione complessiva è quella di uno splendore  bizzarro e opulento, di una reggia delle meraviglie con animali pietrificati e diventati gemme.




Di certo un'opera che non lascia indifferenti, per la mescolanza di tradizione e di audacia, di ufficialità e di trasgressione, di etichetta e di anticonformismo.

Anche questo è tipico di Bruxelles o, come si dice da queste parti, quando la realtà è scossa da un pizzico di follia, da un "grain de folie", semplicemente:  "c'est du belge".





lunedì 13 giugno 2011

I capelli di Leonello d'Este.




Nel 1441 nel palazzo dei marchesi di Ferrara si svolse una competizione che fu celebrata a lungo, in prosa e in poesia.
Per sei mesi due pittori famosi, Jacopo Bellini e Pisanello, si impegnarono, a gara, per ritrarre un giovane trentaquattrenne, destinato a diventare di lì a poco, il signore della città: Leonello d'Este.
Vinse il ritratto di Jacopo Bellini, ma finì per andar perduto. 
Sopravvisse, invece, quello di Pisanello.
Eccolo:


Leonello indossa una elegantissima veste color granata, decorata da palmette, da cui si intravede la camicia bianca e una sopravveste con grandi bottoni d'argento.
Alle sue spalle c'è un nastro intrecciato: forse un'allusione ai lacci o ai nodi d'amore. All'amore alludono anche le rose selvatiche sullo sfondo.
La pettinatura è molto curata, del tipo detto "a scutella", con i capelli tagliati a ciocche che seguono l'andamento della testa e della nuca.
Secondo la moda, arrivata da poco dalla Francia, la fronte è rasata e il biondo è aiutato con qualche schiarente.

Ci si può chiedere perché si desse tanta importanza a questo ritratto, occupando, per sei mesi, i due ritrattisti più noti d'Italia.

È che allora non era in gioco soltanto la vanità di Leonello: la gara rappresentava un passaggio decisivo nella messa a punto di una strategia pubblicitaria.
Gli Este si vantavano di essere una delle più nobili famiglie italiane, ma non erano né una potenza militare né finanziaria.
Il piccolo marchesato, schiacciato tra lo Stato della Chiesa e la Repubblica di Venezia, era strategicamente importante, ma non ricco. 
Il suo territorio era paludoso e inadatto all'agricoltura; i maggiori introiti venivano dai dazi delle merci in transito. Insomma non poteva contare su molte risorse e aveva bisogno di visibilità.
Perchè anche la visibilità è una risorsa economica.
Oggi lo sappiamo bene, ma era vero anche allora: trovare un posto nel firmamento delle dinastie europee significava concludere proficui accordi commerciali, acquisire alleanze politiche e militari e riuscire, perfino, a realizzare buoni matrimoni, utilissimi per aumentare la propria influenza.

Per non essere confusi tra signorotti qualsiasi di provincia occorreva distinguersi con una gestione del potere, basata sulla "magnificenza".
Era necessario competere con il fasto delle corti europee, arrivare a imporre la moda e raggiungere una fama di preziosa raffinatezza.
Oggi siamo nella civiltà dell’immagine, ma nemmeno allora era un’epoca di understatment: il culto delle apparenze dominava la società delle corti.
Leonello lo sapeva bene. 
Colto, educato nelle armi e nelle lettere, incarnava un nuovo modello di principe. Parlava benissimo il latino ed era  un intenditore d'arte, tra i primi a collezionare la pittura fiamminga e capace di richiamare a Ferrara artisti del calibro di Leon Battista Alberti e Piero della Francesca.
Nel suo palazzo di Belfiore si era fatto costruire uno studiolo (ne ho parlato qui), dove conservare la sua biblioteca ed esibire la sua cultura: un luogo  diventato un modello per tutti i signori italiani.
La fama della sua cortesia e della sua eleganza veniva diffusa, ad arte, dai letterati di corte.
La ricchezza e i colori degli abiti, suggeriti dall'astrologo personale, la  maestria e la grazia nei complicati passi di danza, la capacità di affrontare con garbo sottili disquisizioni letterarie: tutto era propagandato con metodi da campagna pubblicitaria.

Leonello aveva compreso benissimo l'importanza della sua immagine.
E vi aveva investito risorse e inventiva. 
Era stato uno dei primi ad approfittare di un nuovo prodotto artistico creato, proprio a Ferrara, da Pisanello, un gadget diremmo oggi, diventato subito di gran successo in tutte le corti italiane: la medaglia celebrativa con il ritratto in profilo del signore  nel diritto e un emblema araldico nel rovescio.
Un oggetto piccolo, raffinato, simile nell'aspetto alle monete classiche. 
La tecnica di esecuzione, non era, però, il conio, ma la fusione, come per le sculture. E questo comportava la realizzazione di un numero tanto più limitato quanto più ambito, di esemplari.
Le medaglie divennero, da subito, un dono raffinato, da far circolare e da regalare alle persone giuste, alle più influenti.
Un modo discreto per farsi conoscere, gratificante anche per chi lo riceveva.
Per usare al meglio questo strumento era necessario trovare un elemento che caratterizzasse le fattezze di Leonello e lo rendesse immediatamente identificabile.


Il suo ritratto - per funzionare- doveva essere riconoscibile, tanto da diventare un "marchio" per propagandare gli Este e Ferrara.
La competizione del 1441 era stata il  primo test di prova.
Nel ritratto di Pisanello si nota, immediatamente, un dettaglio che colpisce: è l'acconciatura accurata con le ciocche, trattate una a una; i capelli, insomma.
Ed è su questo che si decise di puntare.
Saranno proprio capelli a spiccare in tutt'e sei le medaglie eseguite da Pisanello e -accentuati e messi in evidenza- ad assicurare la riconoscibilità di Leonello.
In questa, per esempio:

La folta capigliatura "leonina" alludeva alla simbologia positiva che il leone, il più nobile degli animali, incarnava fin dal medioevo: il cuor di leone era l'attributo tipico dei cavalieri più coraggiosi. 
E, soprattutto, rimandava al nome di Leonello, che non era quello di un santo, ma di un eroe cortese, un protagonista dei racconti di cavalleria, "les chansons de geste", diffusi e noti in tutta Europa.
Il "marchio" era pronto.
Vi si potevano condensare allusioni, suggestioni, simboli: Leonello, leone, cavalleria, coraggio, eleganza, munificenza.



La civiltà dell'immagine avanzava irresistibilmente







mercoledì 8 giugno 2011

Bruxelles, Arne Quinze e The Sequence




Da qualche mese dividiamo gli amici che vengono a trovarci a Bruxelles in due categorie: quelli che non conoscono l'opera di Arne Quinze (e li portiamo subito a scoprirla) e quelli che la conoscono (e li portiamo a rivederla).

Insomma non c'è scampo

Cityscape
Ho cominciato ad amare Arne Quinze, quando, qualche anno fa, in uno spazio centrale, ma vuoto, della città ho visto nascere la sua prima opera: Cityscape, purtroppo, poi,  smantellata.
Dico nascere, perché questa è la parola che mi viene alla mente, quasi fosse stato qualcosa di organico, un albero, una nuvola o uno strano esotico animale, che, improvvisamente, avesse preso vita.



Nei link che qui inserisco si possono trovare le concezioni di questo scultore belga quarantenne che si definisce “futurologo” e visionario”; 
dei cenni sulla sua avventurosa biografia (da autore di graffiti, a membro di una gang di motociclisti, a raffinato designer) 
e  scoprire altre sue opere realizzate o in progettazione.

E per due anni (fino al 2013), visitando Bruxelles, si potrà vedere, tra due edifici del Parlamento fiammingo, in rue de Louvain, in una zona  poco frequentata e destinata a uffici e a istituzioni pubbliche, un'opera come questa:






The Sequence, si chiama, è lunga ottanta metri e alta quindici.
E' nata, quasi d'improvviso, con un montaggio che è durato quindici giorni, costruita in pezzi di legno di recupero, sostenuta da pilastri di legno, inseriti in zoccoli di cemento, e dipinta con uno smagliante colore arancione. 


Un'opera da vivere.





Ci si può camminare sotto, come fosse uno di quei dragoni di carta, che sfilano nei cortei orientali per il nuovo anno.









La si può osservare da due piattaforme fornite di panchine; la si può fotografare da ogni parte, meravigliandosi a ogni minima variazione di colore.








Si può giocare a intravedere il verde degli alberi o a guardare come si riflette  nei vetri delle finestre dell'anonimo palazzo di fronte.







Che cosa significa ? Non lo so. Ma, forse, non occorre nemmeno saperlo.

Quello che è certo è che una zona appartata, silenziosa e un po' grigia si è, di colpo, trasformata.
La presenza di questa scultura ha reso vivibile, straordinaria e affascinante una parte quasi ignorata della città. 


Un'esplosione di vita. 
Come se fosse un elemento naturale, spontaneo, rigoglioso e irrefrenabile.

Quando mi ci sono trovata di fronte, per la prima volta e senza preavviso, c'era il sole e   la gioia e  l'allegria che mi ha provocato sono state le stesse che  avrei provato alla vista inaspettata di un campo di papaveri o delle foglie rosse degli aceri nei primi giorni dell'autunno.


E poi ? ... E poi  intorno c'è Bruxelles.
E non è poco.






la prima foto è presa da Wikipedia
le altre sono di mio marito



sabato 4 giugno 2011

"La condizione umana" di René Magritte




Non è facile  per me commentare un quadro di René Magritte.
Non è solo l'ammirazione che mi lega a questo artista ironico e distaccato, sorridente e irridente, è qualcosa di più: è affetto.
Da quando vivo in Belgio, da quando conosco e amo questo bizzarro paese che tanto gli assomiglia, Magritte  è diventato parte della mia famiglia, un nonno, uno zio, un parente, insomma, che si diverte a sconcertarmi con i suoi dipinti e con i suoi pensieri.

Eppure di lui ho già parlato: ho raccontato del suo amore per Georgette, l”ombra della sua ombra”(qui), o dell' armadio rosso della sua camera da letto (qui).
Ma mi  è  difficile trattarlo come un qualsiasi  altro pittore.

Stamattina, però, la giornata nitida  e il  cielo azzurro chiaro erano  talmente “magrittiani”, che mi hanno trasportato subito dentro  uno dei suoi dipinti, davanti a una  finestra col telaio in legno bianco, uguale  a quella di casa mia.
Allora, sono corsa a cercare il quadro che mi era venuto in mente.
“La Condizione umana”  si intitola.
Eccolo:




Siamo nel 1933, Magritte ha trentacinque anni, da tempo fa parte del gruppo dei Surrealisti belgi. Da poco  ha  tentato di stabilirsi nella capitale artistica d'Europa, a Parigi, prendendo contatti con i surrealisti francesi. Ma ha litigato con il "capo" riconosciuto del movimento, André Breton,  che non capiva le sue scelte.

Per Magritte l'anticonformismo, la libertà, non era nel condurre una vita fuori dagli schemi. 
Era invece  quella di forzarli, di abbatterli gli schemi, ma dall'interno.
Per questo è tornato a Bruxelles, a Jette, ad abitare in un piccolo appartamento a pianterreno, in un quartiere piccolo borghese, a vestirsi in giacca e cravatta e ad ascoltare, nel salotto buono, la moglie Georgette che suona il piano, tenendo l'immancabile  cane accucciato ai suoi piedi.

Non è ricco, all'epoca, Magritte e con i quadri non guadagna: ha creato un'agenzia di pubblicità, disegna manifesti e locandine. 
È nel laboratorio in fondo al giardino che elabora le sue immagini più famose, la colomba della Sabena o gli omini in bombetta di "Golconda" che piovono misteriosamente dal cielo sopra Bruxelles.
Quel laboratorio lui non lo ama affatto; lo chiama Dongo, in atto di spregio, dal nome di Fabrizio del Dongo, il protagonista della "Certosa di Parma'" di Stendhal, un autore e un romanzo che detesta.
Ma non si sente condizionato dalle difficoltà economiche.
Non si sente prigioniero.
Anzi, è là che si sente libero, è in quel quartiere tipicamente belga dove vive, dove i vicini lo descrivono come un "uomo cortese e silenzioso", dove porta a passeggiare il cane, attento solo a non disturbare, conformista in tutto, perfino nel taglio dei capelli, nell'abito a doppio petto, nella cravatta.

La sua libertà è tutta  nelle conversazioni con  gli amici, nelle foto  in cui amano giocare a travestirsi.
La sua libertà è nella piccola stanza da pranzo, il luogo dove abitualmente dipinge, al cavalletto, davanti alla finestra  col telaio in legno bianco.

La finestra, appunto, è uno dei suoi temi favoriti. Uno di quei motivi che, secondo l’estetica surrealista, trae dalla vita quotidiana, staccandoli dal loro contesto e facendogli assumere un senso diverso.
Qui ci ha piazzato davanti  un cavalletto con un quadro senza cornice.
Il paesaggio dipinto nella tela è lo stesso che si intravede fuori dalla finestra, anzi si sovrappone  completamente, tanto che non si capisce dove finisca l'uno e cominci l'altro.
Non si capisce quali siano i confini tra pittura e realtà.

Lo stile è quello suo solito, preciso, minuzioso, come una fotografia.
Ma non è una fotografia.
Ed è qui la sua prima trappola, il suo primo inganno. 
Non ci può essere differenza tra realtà e pittura, perché si tratta di un dipinto, dove tutto è irreale, sia il paesaggio dietro la finestra che quello sulla tela.
Sono tutt'e due inganni, tutt'e due finzioni.
Una fotografia che non è una fotografia, un paesaggio reale che non è un paesaggio reale.

La stanza del  dipinto è vuota, manca ogni presenza umana.
Cosa vuol dire?: si chiedono i critici. 
Forse- pensano-  vuole alludere alla nostra solitudine di fronte al mondo ed è per questo che lo ha intitolato “La condizione umana”.
Oppure vuol dire che noi non possiamo scappare da quello che ci circonda, perché siamo noi stessi a  creare il nostro universo, al di fuori e dentro la stanza, al di qua e al di là della finestra.
O può significare che è  l'artista il creatore.
Teorie complesse? Forse troppo.
Come  diceva Magritte, spesso spazientito per l’eccesso di commenti e per i tentativi di comprensione e decodificazione dei suoi quadri: “In fondo dipingo solo quello che vedo, sono solo immagini”. 

Sì, ma immagini di un altro mondo, un mondo che va oltre le barriere del familiare. 
Enigmi che non sono il frutto di allucinazioni provocate deliberatamente, ma di una contemplazione e di un'osservazione  minuziosa della realtà quotidiana.

Ambienti, situazioni di tutti i giorni che assumono un significato differente, che diventano spiazzanti. 
Gli oggetti più banali, i mobili del salotto, una finestra, un camino, una carta da parati, un cavalletto che  diventano il luogo dell'imprevedibilità, della fantasia, dell'immaginario.
E ogni interpretazione è  lasciata a chi guarda ed è valida anche quella che l'artista non si è mai sognato di  dare.

È così che Magritte ci restituisce la nostra libertà di sensazioni e di pensieri.
È così che forza gli schemi, che ribalta le nostre idee.
In questo intreccio di senso e di non senso, usando l'ironia come un grimaldello per scardinare i luoghi comuni, le espressioni abusate. 
Il tutto con l'abito scuro, la pipa e la bombetta.
E alla fine, sorridendo, ci strizza l'occhio, facendoci capire che in fondo tutto è un gioco e che si è solo divertito con noi, come in una di quelle partite a scacchi che amava tanto.

Bella mossa, René: scacco matto!




Per chi voglia ritrovare Magritte nella sua Bruxelles:
la prima tappa è il Musée Magritte (qui) anche se Magritte mi pare qui  fin troppo “museificato”, con un allestimento troppo “serio” per l’ironia dei suoi dipinti.
Per conoscerlo davvero è meglio visitare la casa di Jette (quidove ha vissuto più di vent'anni, che ora è  aperta al pubblico. Qui si possono ritrovare non solo il suo ambiente, ma anche tutti gli elementi che compaiono nei suoi quadri.
E' da prevedere, poi, un passaggio (con birra obbligatoria) nei suoi bistrot preferiti: La Fleur en papier doré (qui), dove si trovava con gli amici surrealisti e il Greenwich (qui),ora interamente restaurato, dove, ogni tanto, giocava a scacchi,  fumando l’immancabile pipa.
E' visibile, ma solo dall'esterno, anche la sua ultima abitazione, la villetta di rue de Mimosas, dove è stato  fotografato tante volte nei suoi ultimi anni di vita, quando era diventato famoso grazie ai collezionisti americani.
E, poi,  a me  e a mio marito piace, ogni tanto, fare una visita al cimitero di Etterbeck, dove riposa con Georgette. 
A volte cediamo alla tentazione di portare dei fiori, anche se sappiamo che non li gradirebbe e che esclamerebbe con il suo inconfondibile accento belga:  “Quel gaspillage! Che spreco!”.