martedì 30 agosto 2011

Un giallo: la congiura dei Pazzi (1)





Cosa c'è di meglio in queste pigre e piovose giornate di fine estate che leggere un giallo?
Raccontarlo, è ovvio.
Sì, proprio un giallo. Ed è una storia vera, dove si mescolano avidità, dramma, colpi di scena e una suspense degna di Hitchcock.
È la congiura dei Pazzi.





Siamo nella Firenze del Quattrocento, nell'aprile del 1478. Un aprile particolarmente assolato. 
Per le strade strette si affollano donne dalle lunghe vesti e uomini in farsetto e calzebraghe.
La città è piena di cantieri e di nuovi edifici. La cupola del Duomo, inaugurata trent'anni prima, domina il panorama e le stanze dei palazzi delle famiglie nobili sono fresche di intonaco. C'è un gran fervore di attività, di commerci e di scambi.
Le botteghe degli artigiani e degli artisti lavorano a pieno regime. E, per i vicoli,  c'è un rumore incessante di telai, di colpi di martello, un brusio continuo di voci.
La città è, formalmente, una Repubblica, ma, di fatto, la famiglia Medici esercita il potere: gli è bastato mettere nei posti chiave i propri uomini di fiducia.

Lorenzo
I protagonisti, o, meglio, le vittime designate sono due: Lorenzo e Giuliano de' Medici
Dal 1469, quando il padre, Piero, è morto si comportano come  se fossero i signori della città.


Sono giovani (non ancora trentenni), eleganti, intelligenti, beffardi, si vestono sempre all'ultima moda; si atteggiano ad aristocratici; vincono giostre e tornei e corteggiano (ricambiati) le donne più ambite di Firenze.


Intorno hanno una schiera di cortigiani pronti a riempirli di lodi
Li hanno, perfino, definiti i "Dioscuri", come Castore e Pollluce, i due semidei figli di Giove.
Pura adulazione, perché belli come Dei greci, di certo non  sono.


Hanno preso dalla madre, Lucrezia Tornabuoni, il naso storto e schiacciato, la voce in falsetto e la pelle olivastra e chiazzata.
Per fortuna ne hanno ereditato anche l'intelligenza affilata e acuta come una lama di pugnale (giusto per essere in tema).
Ricchi, questo sì lo sono: il Banco Mediceo, retto con acume e abilità dal nonno Cosimo, ha in mano l'economia europea.
Loro si disinteressano di  finanze, non si vogliono "sporcare le mani": al Banco ci pensano i loro consiglieri.
Si dilettano, piuttosto, di arti, di poesia e, soprattutto, di donne.

Giuliano


Giuliano, il più giovane e bello, ruba la scena al fratello, con la libertà del secondogenito che non ha sulle spalle il peso della successione.
Intorno a lui c'è un alone di romanticismo che gli piace accentuare, da quando è morta di tisi (come ogni eroina che si rispetti) la donna più bella della città, Simonetta Vespucci.
Tutti sanno che l'ha amata e che gli ha dedicato, nel 1475, la vittoria nella giostra più famosa mai corsa a Firenze, cantata dal poeta di famiglia, Agnolo Poliziano.
Il fratello maggiore, più pratico e costretto da anni a un matrimonio obbligato con la romana Clarice Orsini, pensa, intanto, ad aumentare l'influenza e la rete di conoscenze della famiglia.
I due vanno molto d'accordo: sono, ormai, nove anni che spadroneggiano e dettano legge in città.
Ce n'è abbastanza per rendere geloso chiunque, tanto più i nobili fiorentini, che  si dice siano rissosi, invidiosi e che non ne perdonino una.

Jacopo de' Pazzi, esponente di una delle più importanti famiglie cittadine, non è uomo da subire in silenzio.
Nel 1478 ha cinquantasei anni. 
È anche lui amante delle arti: si è fatto costruire un palazzo bello come quello dei Medici e  il suo stemma, con due delfini, si trova bene in vista dappertutto
Anche lui è ricco, intelligente astuto, anche lui ama il lusso e il potere.
È sempre più stanco di sottostare ai due antipatici e apparentemente fatui Dioscuri.
Da anni i Medici e i Pazzi non si risparmiano colpi bassi, mirando là dove sono più sensibili: il portafoglio.
Una lotta senza sosta, dove tutto è lecito. Gli ultimi due  round sono stati clamorosi.

Jacopo Pazzi ha messo a segno un colpo da campione: si è accordato col nuovo papa, l'ambizioso Sisto IV della Rovere, ed è riuscito a esautorare i Medici dalla gestione delle finanze pontificie.
Una dura batosta perché significa una perdita netta di denaro e di influenza e, soprattutto, la rinuncia alle miniere di allume dei monti della Tolfa, allora di pertinenza papale. E l'allume è un fissatore per la tintura dei tessuti, indispensabile per Firenze, che ha basato la sua fortuna sul commercio dei panni di lana.

I Medici hanno reagito subito. 
Nel 1477 muore Beatrice Borromei, imparentata con la famiglia Pazzi per via di matrimonio.Tutta la sua eredità spetterebbe a Jacopo.
"Spetterebbe", appunto, se Lorenzo non intervenisse, facendo approvare dai suoi, nel Consiglio, una legge retroattiva ad personam (anche allora usava), che, con un cavillo, priva i Pazzi di ogni eredità.
Per Jacopo Pazzi è troppo: è la goccia che fa traboccare il vaso.
Si vede sfumare sotto gli occhi l'occasione di diventare il più ricco di Firenze e, forse, la possibilità di prendere il potere, mentre i due Dioscuri se la ridono, festeggiano e scrivono poesie su "Quant'è bella giovinezza !".

È necessario farli fuori.
Un killer lo ha trovato ed è uno che col pugnale ci sa fare. Ora bisogna creare l'occasione e, soprattutto, le complicità e le protezioni giuste per dopo, per quando i due saranno eliminati.
Ed ecco che la congiura prende forma: anche il papa Sisto IV ha voglia di sbarazzarsi dei Medici per cedere ai nipoti Riario, cui è legatissimo, qualche pezzo del territorio fiorentino.

La Repubblica di Siena e il re di Napoli danno, segretamente, il loro assenso. Nessuna simpatia o antipatia personale. È una questione di realpolitik: i Medici sono diventati troppo arroganti; con i Pazzi, invece, si potrà trattare.
Entra in gioco perfino l'arcivescovo di Pisa, Francesco Salviati, che si vuole vendicare dei Medici perché gli hanno negato l'arcivescovato fiorentino.

Dietro le quinte, nell'ombra c'è un uomo potente, uno stratega, uno dei mandanti, forse l'organizzatore occulto.
Di lui, per ora, intravediamo, a mala pena l'inconfondibile profilo, mentre tiene tra le mani una lettera cifrata.





Non resta che fare un piano e sistemarli, davvero, e una volta per sempre, i due Dioscuri.

(continua)





martedì 23 agosto 2011

Michelangelo: la Madonna di Bruges




Quando accompagno a Bruges gli amici che vengono a trovarmi in Belgio, spero sempre che non abbiano letto guide o testi di storia dell'arte, perché mi piace godermi la loro meraviglia, quando entrano nella chiesa di Nostra Signora (Onze-Lieve-Vrouwekerk) e sono attratti, immediatamente, dalla bellissima Madonna in marmo dell'altare in fondo alla navata destra.

Si ha, subito, l'impressione che la scultura, alta poco meno di un metro e trenta, abbia una forza e una potenza che prescinde dalle sue dimensioni. Sembra che domini l'ambiente circostante; che non abbia niente a che fare con le statue che l'attorniano; che sia, insomma, un'opera straordinaria e, in qualche modo, aliena.
Si sente, da subito, che siamo di fronte a un'opera eccezionale, a un capolavoro.
Si capisce che siamo davanti a Michelangelo:



La Madonna siede sul trono, che tradizionalmente simboleggia la "Sedes sapientiae".
È avvolta in una veste dagli ampi panneggi, di un marmo così levigato da apparire quasi traslucido.
La veste forma, con il mantello che le copre la testa, una specie di ellissi che la racchiude e che ne esalta l'isolamento e, insieme, la monumentalità.
È una giovane bellissima.
Il volto ovale e aggraziato, ha lineamenti raffinati e regolari, come quello di Maria nella Pietà di San Pietro a Roma.

Ha la dignità di una vera "Regina del Cielo".
Non guarda il bambino, non sorride: sfugge lo sguardo dello spettatore, in un raccoglimento pensoso e malinconico. Sembra assorta nella premonizione della sorte sua e del figlio.

Conosce già il doloroso destino che li attende.

Ha il dono divino del sapere. E sa che quel destino non può evitarlo: sa che le sarà imposta la sofferenza dell’accettazione consapevole.
Sul fermaglio del mantello la testa di un cherubino è simbolo della sua "intelligenza chiara" o del dono della profezia.
C’è un libro nelle sue mani: e lì, nelle Sacre Scritture, c'è la conferma della sua sorte.


Non c'è alcun rapporto di tenerezza con il Bambino; non lo tiene né abbracciato, né in grembo, come si usava nelle raffigurazioni tradizionali.
Ognuno dei due sembra solo.

Il Bambino, alto e robusto, è in piedi, quasi senza sostegno, entro le ginocchia aperte della madre che ricordano la posa del parto e rievocano il titolo di "Mater Dei", secondo un'antica iconografia bizantina.

Sembra che esca, già grande, dal grembo materno e muova, con una certa solennità, i primi passi per offrirsi al mondo. Nello stesso tempo, pare che abbia paura e si voglia ritrarre, cercando ancora, con la mano, la protezione della madre, quasi invocando col gesto, di essere trattenuto.

Nelle due mani unite c'è l'unico punto di contatto tra madre e figlio: c’è l'espressione di un affetto irriducibile; forse c’è già la nostalgia per una fusione perfetta ed esclusiva, ma ormai irrimediabilmente perduta.
E c’è insieme, l’abbandonarsi a una separazione e a un destino segnato.

È straordinario come Michelangelo sia riuscito a liberare dal marmo, con maestria e potenza di esecuzione, un intreccio così luminoso di sentimenti e, insieme, di motivi iconografici complessi.
E per questo questa scultura non lascia indifferenti, attrae e suscita emozioni.

Ma come è arrivata a Bruges?
No. Stavolta non è stato per un furto, né per un'esportazione clandestina: questa è l'unica opera venduta fuori dall'Italia da Michelangelo stesso e a caro prezzo.
Bruges, agli inizi del Cinquecento, è uno dei centri più ricchi d'Europa, grazie al mercato della lana e al commercio. 
È in stretta relazione d'affari con Firenze, tanto che i Medici vi hanno aperto un'importante filiale del loro Banco.

Jean e Alexandre Mouscron, (all'italiana Moscheroni), due ricchi mercanti di tessuti, sono in contatto di lavoro con il fiorentino Jacopo Galli, banchiere, grande collezionista e amatore d'arte. Ed è forse, Galli a indicare Michelangelo, di cui conosce bene il pessimo carattere, ma anche le straordinarie qualità, come lo scultore più adatto per eseguire una Madonna destinata alla loro cappella funebre.
Michelangelo, all'epoca trentenne, è a Firenze, dove lavora, giorno e notte, dietro un tramezzo di legno appositamente costruito, a sbozzare un gigantesco pezzo di marmo per ricavare la statua di un David.
È un'opera difficile, una committenza pubblica di prestigio, a cui molti, prima di lui, hanno rinunciato. Lui, invece, si è ostinato, capendo che è quella può essere l'occasione giusta per costruire la sua fama di scultore "eroico" e geniale.
Tutta la città è incuriosita e aspetta, con ansia, il risultato. Michelangelo lo sa e ha dichiarato che tutto il suo tempo sarà occupato nel David.
Di sicuro il daffare è tanto, ma la cifra record di 4.OOO fiorini, che i ricchi fiamminghi gli hanno offerto, è una tentazione irresistibile.

Accetta, dunque, il lavoro: non si sa se esegua appositamente una scultura, oppure ne riadatti una che già ha fatto, forse per i Piccolomini di Siena.
Di certo tratta tutta la faccenda con una riservatezza degna di un libro giallo. Nel gennaio del 1506 scrive al padre che la Madonna in casa sua, non deve "essere fatta vedere a persona".
Da lì, altrettanto segretamente, ad agosto, la fa trasportare a Livorno e trasferire nelle Fiandre, via mare. Nessuno l'ha vista, tanto che nelle biografie di Michelangelo se ne parlerà appena e in maniera confusa, descrivendola, addirittura, come un tondo o un bronzo.

A Bruges, invece, se ne parlerà, eccome, fin dal 1508, quando viene collocata nella cappella dei Mouscron, in cattedrale, con tutti gli onori. Là rimane, fino all'epoca delle conquiste napoleoniche, quando viene trafugata e trasferita in Francia, per poi tornare a Bruges, nella chiesa dove ora si trova.
Quando la si vede, però, non importa conoscerne la storia.

C’è qualcosa di profondo in noi che viene toccato. Michelangelo ha fermato il momento in cui, nel figlio e, soprattutto, nella madre, il sentimento di gioia che accompagna il ricevere e il dare la vita si trasforma nella percezione della condizione umana, nella consapevolezza dell'incombere ineludibile dell’ombra della fine.
Ha saputo fissare nel marmo “il sentimento tragico della vita”.







mercoledì 17 agosto 2011

La spiaggia di Agrigento di Nicolas de Staël




"L'éternité. C'est la mer allée avec le soleil" (Arthur Rimbaud)


Quando penso al mare, al sole e alla luce  del Sud, mi viene in  mente il dipinto di un pittore che amo molto: Nicolas de Staël e la sua "Spiaggia di Agrigento"




Una spiaggia  gialla e il mare, una sottile linea  blu scuro, che si confonde con l'azzurro del cielo.
Colori intensi: giallo limone, rosso, blu, violetto, una luce fortissima, abbacinante.
Il mare e la spiaggia di Agrigento.

Quando li dipinge, nel 1953, Nicolas de Staël ha trentanove anni, e una vita drammatica alle spalle: nato in Russia,è sfuggito, con la famiglia di origine aristocratica, alla rivoluzione d'ottobre e ha attraversato tutta Europa, prima di stabilirsi  a Parigi. 
Allo scoppio della guerra si è arruolato nella Legione straniera, e, una volta smobilitato, è tornato in Francia, a Nizza e poi, di nuovo, a Parigi. 
Le  difficoltà, durante l'occupazione, sono state tante: la miseria, la morte di stenti  della prima amatissima moglie, il dolore e  la depressione.
Dopo la guerra, finalmente, i primi successi, i guadagni, la casa nel sud della Francia, un secondo matrimonio, i figli e i viaggi. 
E, come sempre, la voglia- quasi un'ossessione- di dipingere e  la volontà ostinata  di trovare uno stile che sia autenticamente suo.

Nell'estate del 1953, ha deciso di  percorrere in macchina, con la famiglia, tutta l'Italia,  fino a raggiungere la Sicilia. 
Non ha portato né tele, né tavolozza, ma,  arrivato  ad Agrigento, è preso dall'entusiasmo per il sole, per la natura e per i colori. 
Sceglie di fermarsi là e comincia a riempire di schizzi tutti  i quaderni che ha con sé.
A colpirlo sono il chiarore accecante, le spiagge deserte, le cave di pietra, ma anche le tracce del passato, la valle dei templi: la Sicilia di allora,  con un paesaggio vuoto di edifici e ancora intatto, doveva essere, davvero, bellissima.

Al ritorno, basandosi su quegli schizzi, esegue una ventina di quadri.  
Non sono vedute precise, ma, piuttosto, la rappresentazione delle sensazioni provocate da quel  paesaggio, aspro e assolato. 
Finalmente è felice: ha trovato la sua strada e lo scrive nelle lettere agli amici. 
Ma, soprattutto, gli sembra di essere arrivato alla soluzione di un nodo fondamentale, del  problema che si pone da sempre: conciliare la pittura astratta  con quella figurativa. 
Due poli, due tendenze, una divisione che attraversa tutta la pittura contemporanea e che, per lui, è lacerante.

In effetti, in questa tela e nelle altre dello stesso periodo, l'equilibrio sembra raggiunto. 
Un equilibrio che è fragile come una lama sottile. Sente che è  arrivato a "  una pittura che è allo stesso tempo figurativa e astratta …composta di masse colorate e di mille e mille vibrazioni".
La figura non è scomparsa, ma è evocata attraverso il colore.
La spiaggia d'Agrigento non è descritta, ma rivissuta nelle sue tinte forti, nella luce eccessiva, nel giallo della terra riarsa, delle rocce e della sabbia e nel blu del mare e del cielo. 
Non ci sono mezze tinte, ma un colore  chiaro, puro, opulento che sembra incorporare tutta la luce.

"Astrattismo lirico", "espressionismo astratto": poco contano le etichette di fronte a questa  pienezza di pittura, in cui la realtà, anche se trasfigurata e interpretata, appare sempre riconoscibile. Perché,come scrive, "non bisogna mai andare né troppo vicino, né troppo lontano dal soggetto".
E poco conta sapere chi tra i grandi maestri del passato o tra i più recenti, tra Cézanne, Braque o Matisse, lo abbia condotto fin lì. 
Ha raggiunto un equilibrio, ma è come se camminasse su  una corda troppo tesa e destinata, quasi subito, a spezzarsi.
La passione assoluta, la voglia continua di dipingere, il confronto tra  astrazione e figurazione, lo hanno portato all'estremo limite. 
È stato un percorso faticoso, quasi ascetico, compiuto con  una dedizione totale. Un itinerario che lo ha coinvolto interamente e che finirà  in tragedia, con la scelta finale, quella del suicidio, nel 1955.
E, forse, parla ancora della pittura, quando, il giorno prima di morire, scrive alla sorella: "Dio,com'è difficile la vita, bisogna suonare tutte le note e suonarle bene...".

Sono passati appena due anni da quando ha dipinto  questo paesaggio aperto, solare; due anni da quando lo ha raffigurato con energia, con forza e con  vitalità.
Colori e luce capaci di illuminare ancora, a tanta distanza di tempo, le mie giornate piovose d'agosto, capaci di farci condividere la meraviglia e la vertigine, che lo aveva preso di fronte alla spiaggia di Agrigento e di cui scriveva:  "La vertigine io l'amo. E la voglio, a tutti i costi, ma che sia grande". 
Grande fino a perdersi, nel sole e nel mare: nell'eternità, di cui parla Rimbaud.








venerdì 12 agosto 2011

La raffica di vento di Jeff Wall.




Mare? Montagna? 
Nessuno dei due, passo l'agosto a Bruxelles. 
E allora meglio andare a vedere la mostra* di un artista contemporaneo per scoprire che "niente è come  sembra”.

Jeff Wall  (nato nel 1946 in Canada)  è un  fotografo famoso, il primo che  abbia usato foto di grande formato (in media due metri e mezzo per tre) retro-illuminate  (inserite in light box), una tecnica che ha preso dalla pubblicità e che trasforma ogni sua immagine in un  punto d'attrazione, qualcosa a metà tra il cartellone pubblicitario, un fermo-immagine cinematografico e la pittura.
Come questa, per esempio:



In una campagna gelida, un'improvvisa raffica di vento fa volare, da una cartella, una serie di fogli  dattiloscritti  che si si spandono nell'aria.
Sullo sfondo- in cui si intravedono i fumi di una ciminiera, i pali della luce, capanne e oggetti in disuso- scorre un fiumiciattolo con le rive sporche  di rifiuti.

Si tratta di un'istantanea?  Niente affatto.

L'impressione che Jeff Wall vuole dare è quella di aver fissato  un  istante di vita quotidiana.
In realtà, per ottenere questo effetto, ha organizzato una messa in scena, durata giornate intere, con un vero e proprio set, un gruppo di attori, luci e costumi. Ha creato, insomma, una “fotografia cinematografica”, con una tecnica molto simile a quella delle  riprese di un film, trattando, poi,al computer, le centinaia di foto scattate, con un lavoro lungo e paziente, per circa un anno. 
La precisione dell'esecuzione– lo dice lui stesso- è paragonabile a quella dei pittori realisti dell'Ottocento, che dipingevano un quadro, attenti a ogni minimo dettaglio e con piccoli e successivi tocchi di colore.
Ecco, dunque, un primo livello di lettura: capire che dell'istantanea non c'è che l'apparenza. 
La foto è una messa in scena, che mescola la tecnica cinematografica, quella digitale e la pratica, più tradizionale, della pittura.

Poi, c'è un secondo livello.
La foto, sia pure accomodata, non ricostruisce affatto un evento reale. Reinterpreta,invece, un dipinto famoso: "La raffica di vento nella risaia di Ejiri", una stampa di uno dei più grandi artisti giapponesi, Hokusai (1760-1849).

Ma attenzione: non è finita qui!
È come un  gioco di scatole cinesi, perché c'è ancora un altro livello. L'ultimo, forse.
La citazione dalla stampa di Hokusai non è precisa: non è una sorta di tableau vivant fotografico.
Tutto è cambiato.


L'incantevole paesaggio alle pendici del Fujiyama, con i fogli bianchi che volano tra le risaie, è diventato un turbinio di documenti dattiloscritti in una  campagna degradata, tra immondizie e fumo di ciminiere.
I  contadini giapponesi, in chimono e cappelli di paglia, si sono trasformati in eleganti yuppies degli anni '80, con   cappotto  a doppio petto e pantaloni grigi o in un passante  con stivali e camicia  a scacchi. 
Solo gli alberi in primo piano, a sinistra, sopravvivono uguali.

Chi guarda la foto ha la sensazione che gli ricordi qualcosa, forse, addirittura, ha l'impressione  di rammentarsi dell’opera, da cui  è tratta, ma resta interdetto,  perché c’è uno scarto, che non riesce  a capire: lo schema è rimasto intatto, ma il contenuto è profondamente cambiato.
Ed è questo scarto che destabilizza, che inquieta.

Molte delle foto di Jeff Wall sono delle "messe in scena"di avvenimenti reali, di ricordi  d'infanzia, di testi letterari, ma,  soprattutto- forse per la sua formazione di storico dell'arte- di capolavori di pittura del passato, a volte, interamente ricreati, a volte, citati in qualche dettaglio, o  inseriti in situazioni di quotidianità contemporanea.
"Bisogna dipingere la vita moderna": era il programma di Baudelaire e di Manet, a cui si rifà Jeff Wall, che trasferisce, però, la Parigi dell'Ottocento nella Vancouver di oggi, scegliendo, come mezzo, non la pittura, ma la fotografia.



In "Picture for Women", la foto è ripresa da uno specchio, durante una seduta in uno studio: una donna, dallo sguardo assente, sembra assorta nei suoi pensieri. Dietro di lei, compare l'artista stesso, mentre la sta fotografando.






L'atteggiamento della donna è quello della bionda barista di "Un  Bar alle Folies- Bergères" di Manet, ma, questa volta, non è un cliente che la sta guardando, bensì l'obbiettivo della macchina fotografica che domina al centro della composizione. 
E, poi, dietro di lei non c'è lo specchio che riflette la folla del caffè, mentre le luci sono diventate quelle fredde di uno studio fotografico.







Un altro dipinto ispira un'altra fotografia.
La “Morte di Sardanapalo” di Eugène Delacroix, con la sua atmosfera romantica, mista di lussuria e gusto dell'esotico, è reinterpretata in maniera totalmente diversa.






In "Destroyed Room", solo lo schema compositivo rievoca il quadro ottocentesco.
Un materasso sventrato ha preso il posto del re morente, circondato dalle sue concubine. Qui non c'è più spazio per mollezze o compiacimenti morbosi. 
C'è soltanto la violenza di un atto vandalico che ha ridotto la camera di una donna a un ammasso di cassettiere aperte, vestiti, scarpe e gioielli ammucchiati per terra.




I quadri famosi sono trasferiti in situazioni attuali e perdono ogni "aura", reinterpretati e trasposti, come sono,  nella più banale realtà  quotidiana.
L'effetto è spiazzante: suscita sconcerto, curiosità e, soprattutto, la voglia di capire.
Ci si chiede cosa voglia dire, se la conoscenza dei dipinti, a cui si ispira, abbia o no importanza, o, addirittura, se sia una provocazione o un gioco ironico. 

Può darsi che l’intento  sia  quello di rivelare le "verità nascoste", il mistero che sta dietro l'apparenza delle cose,quello di farci  interrogare sul rapporto tra l'arte del passato e la vita presente, sulla nostra relazione con l'ambiente che ci circonda, sul valore dell'immagine e su cosa sia, davvero, un' opera d'arte.
Ma può darsi che ci siano ancora  altri e diversi livelli di lettura.
Le domande che le opere di Jeff Wall ci pongono sono tante: ma  è, appunto, per questo che cessano di essere "semplici" fotografie e diventano opere d'arte.







 *La mostra monografica su Jeff Wall, “The croocked path”, che si terrà al Bozar di Bruxelles fino al 10 settembre 2011, comprende  tutte le fasi dell’attività dell’artista e racconta dell’evolversi del suo processo creativo: i link sono qui  e qui.




venerdì 5 agosto 2011

Il sole tropicale di Emil Nolde




Emil Nolde (1867-1956) ha quarantasei anni, quando, nel 1913, si imbarca, insieme con la moglie, verso l'arcipelago Bismarck, al largo delle coste della Nuova Guinea. 
Ha deciso di partecipare a una spedizione scientifica, organizzata dall'Amministrazione coloniale tedesca. Gli è stato affidato l'incarico di documentare, con i suoi  disegni,  i caratteri etnografici delle  popolazioni locali.
Gli schizzi che farà, in realtà, non hanno niente di scientifico: è un artista e tale rimarrà. 

Ha scelto di seguire la  spedizione perché  vuole  ripercorrere  le orme di uno dei pittori che ammira di più, Paul Gauguin. Soprattutto sogna, come molti artisti dell'epoca, di un Eden incontaminato, di un paradiso terrestre.
Crede di poter recuperare nel "primitivo" la fonte di ogni creatività.

I paesaggi che vede lo emozionano, gli riempiono la mente e il cuore di sensazioni. 
E allora - siamo nel 1914- li dipinge, così:


È l'ora del tramonto.
Al di sopra della linea d'orizzonte di un  mare cupo e agitato  si intravede la massa verde scuro dell'isola di Nusa Lik. Ha una forma ondulata, la stessa del cumulo di nubi bianche che sembra salire da destra e della schiuma dell'onda che si infrange sulla spiaggia, in primo piano.
Su tutto domina il  rosso-arancio vivo del sole che illumina, di una luce intensa, un cielo di nuvole violacee.

Rosso, arancio, viola, blu, verde: nessuna sfumatura, pochi colori primari, puri e violenti. 
E sono colori  che, da soli, definiscono la forma, talmente spessi e  pastosi che sembrano spremuti dal tubetto direttamente sulla tela.  
Le superfici sono piatte, non c'è alcuna prospettiva, né alcun senso della profondità e dello spazio.

È così che Nolde intende la pittura: un mezzo per afferrare l'emozione più  profonda, quella "più vicina al cuore"
Non vuole raffigurare quello che vede, ma quello che sente, tanto che per rappresentare il paesaggio non  usa che pochi tratti sintetici.
Lo definisce, invece, con i colori, con quelle  "tempeste di colori", tanto amate dai pittori  espressionisti  del movimento "Die Brücke", con cui condivide comuni ideali artistici. 
Cerca di  esprimere  quello che  percepisce- non con gli occhi, ma con l'anima- anche attraverso la deformazione, la forza del tratto, le tinte  liberamente accostate. 
L'importante, per lui, è  trasformare subito in pittura le sue sensazioni, senza accomodamenti, senza mediazioni.

Emil Nolde è un personaggio contraddittorio, sostenitore del movimento espressionista e, insieme, del ritorno alla purezza di una religiosità primitiva. 
Figlio di contadini è affascinato dalla campagna e dal suo paese natale, Nolde, vicino alla Danimarca, da cui prenderà il nome con cui è conosciuto.
Ma, allo stesso modo, lo stimolano le città  e i paesaggi urbani di Berlino. 
Nel 1934  aderirà, addirittura, al partito nazista, salvo  esserne espulso, poco dopo, come esponente di un' "arte degenerata" e recluso con la  proibizione di dipingere.
Ma smettere di fare il pittore per lui è impossibile , anche se sa di correre dei rischi di quel divieto non ne  terrà conto e continuerà, caparbiamente, a lavorareE come sempre, a lavorare sulle emozioni.

Il sogno del paradiso perduto che cercava ai Tropici, nei mari del sud, è crollato bruscamente già con l'inizio della prima guerra mondiale. 
L'aggressività dei colori e l'intensità del dipinto sono la negazione dell'idea che nella natura si possa trovare pace e quiete.
A emergere, alla fine, è la violenza e la forza primordiale delle sensazioni, una violenza che sembra essere radicata profondamente dentro di noi.

Ci sono dipinti che narrano una storia e dipinti che cercano di condividere un'emozione.
Quelli di Emil Nolde, forse, non raccontano, ma vanno dritti al cuore. Sempre.





Il dipinto è conservato, in Germania, a Seebull, alla Fondazione Ada e Emil Nolde.