venerdì 27 aprile 2012

"La Madonna del canonico van der Paele": lo sguardo di Jan Van Eyck






"Se noi vedessimo la realtà con quegli occhi, ci coglierebbero le vertigini"
(H. Focillon)



Può un dipinto contenere l’universo, può un pittore dipingere tutto quello che gli si presenta sotto occhi, senza dare priorità, senza fare una scelta tra l’infinita varietà dell’universo sensibile?
Sì, se il pittore è Jan Van Eyck (1390 circa-1441) e il quadro è la Madonna del canonico van der Paele, del Groeninge Museum di Bruges:




Siamo nel 1436 e in Italia si è già bruciata la meteora fulminea e folgorante di Masaccio, morto qualche tempo prima ad appena ventisette anni, dopo aver cambiato per sempre, grazie all’uso della prospettiva matematica, la maniera di raffigurare il mondo (ne abbiamo parlato qui
Quella di van Eyck è una rivoluzione altrettanto radicale: nei suoi dipinti, però,  non è l’uomo a osservare il mondo  e a rappresentarlo a sua misura, ma è il mondo esterno a entrarvi prepotentemente con tutta la sua varietà.

La scena sacra con il canonico Joris van der Paele, presentato alla Madonna da due Santi, è ambientata nell’abside della chiesa di san Donaziano, a Bruges, con la luce chiara che entra dalle finestre e il pavimento coperto da un sontuoso tappeto.
È una “Sacra conversazione”, una sorta di visione, di colloquio interiore tra la Madonna, i Santi e il committente, ma è resa con una tale attenzione al dettaglio da diventare tangibile e reale.
Ed è disseminata di particolari da scoprire poco a poco, tanto che i volti dei protagonisti o il più minuto decoro di un tessuto, finiscono per avere la medesima importanza.

È come una serie di scatole cinesi,  una “mise en abime”, dove ogni singolo frammento ne rivela altri, tutti trattati con la stessa assoluta esattezza e dove valore simbolico e realtà si mescolano indissolubilmente.
Basta osservare da vicino il trono, su cui siede la Vergine, per scoprire che le figure ai lati, non sono motivo ornamentali, ma le rappresentazioni di due scene sacre, "Caino e Abele" e "Daniele e il leone", che alludono alla Passione di Cristo. 

La Madonna, dai lunghi e fini  capelli biondi, tiene, tra le braccia, il Bambino che gioca con un pappagallino.

Anche qui realtà e simbolo si mescolano: il pappagallo è uno quegli uccellini che, trattenuti con una corda, erano riservati ai giochi dei bambini, ma simboleggia anche l’Annunciazione perché il suo verso ricorda la parola “Ave”.

Nel piccolo mazzo di fiori che la Madonna regge tra le mani,  i fiori bianchi sono il simbolo della sua purezza verginale, mentre quelli rossi preannunciano il sangue della Crocifissione








San Donaziano, il santo vescovo, cui è intitolata la chiesa, è abbigliato con un ricco piviale azzurro a disegni dorati e ha, in mano, il pastorale sormontato da una croce dorata e un candeliere con le candele accese, che evocano la fede cristiana.


San Giorgio, il santo  protettore del canonico, si toglie l’elmo in segno di deferenza, con un gesto di cortesia cavalleresca.
Tra i bagliori metallici della sua fulgente corazza si intravede il riflesso rosso del manto della Madonna.






Nel ritratto di van der Paele la pittura di van Eyck rivela tutta la sua capacità di descrivere, non solo le fattezze, indagate in ogni loro minima imperfezione, ma anche l'espressione di uno  stato d’animo di raccolta e silenziosa meditazione.

L’anziano canonico, vestito  con una semplice tunica bianca, era un facoltoso mercante di pesce che ha raggiunto una importante carica ecclesiastica. Per questo ci tiene a mostrare  il libro e gli occhiali, completi di custodia in pelle, che testimoniano la sua nuova qualità di erudito.





Tutti i dettagli, su cui si è posato lo sguardo del pittore, sono  immersi in una luminosità chiara e omogenea. 
Van Eyck, per raffigurarli, usa la tecnica della pittura a olio, di cui, secondo Vasari, sarebbe l’inventore: i colori a olio, più brillanti e vividi di quelli a tempera, seccano più lentamente e consentono di creare velature sottilissime che restituiscono non solo l'incidenza della luce, ma anche la consistenza dei singoli oggetti.
Van Eyck lo ha compreso benissimo

Come se fosse un tessitore, sa dipingere la differenza percettibile delle stoffe. i nodi più ruvidi del tappeto, la morbidezza vellutata del damasco del piviale del San Donaziano, la pesantezza del manto rosso della Madonna o la grana soffice della lana della veste e della pelliccia del canonico.



Come se fosse un gioielliere, sa dipingere tutte le pietre preziose, fino alla finezza della filigrana dorata che orna il bordo della veste della Madonna.
Come se usasse il microscopio, sa rendere ogni piega, ogni ruga, quasi ogni poro  della pelle delle mani di van der Paele, così come  ogni sfumatura delle penne del pappagallino o i riflessi della sottile fede dorata che la Madonna porta alla mano sinistra.

È come se nei suoi occhi, nella sua retina, si fosse impresso il mondo intero.
La sensazione che provoca è vertiginosa.

In un racconto di J.L. Borges il protagonista, Ireneo Funès, ha una memoria capace di ritenere ogni evento, pur minimo, della vita, senza poter dimenticare niente.
Mi sembra che van Eyck condivida la stessa facoltà.
In lui, però, è la vista che trattiene tutto quello, su cui si fissa e che lo restituisce in pittura.

Per il  Funès di Borges  il potere di ricordare è maledetto, una condanna che gli impedisce di vivere.
In van Eyck, invece, la possibilità di comprendere tutto attraverso lo sguardo, sembra associarsi alla meraviglia, al desiderio di condividere la varietà del visibile e a uno stupore senza limiti di fronte all’infinita bellezza del mondo.






 

venerdì 20 aprile 2012

Mantegna: un pittore nelle nuvole





Cercando pittori “innamorati delle nubi”, dopo gli aerei ritratti di Constable e la nuvola amorosa di Correggio, ho fatto un incontro del tutto inaspettato.

Apparentemente niente di più lontano dalla morbida consistenza delle nuvole dello stile di Andrea Mantenga, un artista“che tira più alla pietra, che alla carne viva”, come dice Vasari, e -al pari della Medusa della mitologia- è in grado di trasformare in marmo, roccia o cristallo, ogni elemento dei suoi dipinti.

Eppure Mantegna si incanta a raffigurare, nella sua pittura, le infinite forme che possono assumere le nuvole ed è, addirittura, capace di usare la loro soffice e candida sostanza per firmare il suo capolavoro.
Per scoprire la "sua" misteriosa nuvola, bisogna addentrarsi nella selva di affreschi che coprono le pareti di una piccola stanza del palazzo ducale di Mantova.




È la camera degli sposi, o, meglio, secondo la più corretta definizione dei documenti, la “camera picta”, affrescata Mantegna tra 1465 e 1474.
La sala non ha niente di nuziale, anzi, era destinata alle udienze e ai ricevimenti.
Chi varca la soglia entra dentro uno spazio interamente dipinto, un mondo illusorio creato, come un palcoscenico, per esaltare la gloria dei Gonzaga.
Il soffitto simula una decorazione in stucco con fregi e busti di imperatori e, al centro, si apre un oculo, da cui si intravede l'azzurro del cielo.
Le lunette sono ornate da festoni di foglie e di frutta.
In basso, corre una decorazione con finti intarsi marmorei, mentre, sulle pareti, sontuosi tendaggi dipinti si aprono, come sipari teatrali, su scene della vita di corte.

Il committente è il marchese Ludovico, un politico lungimirante e intelligente che ha saputo trasformare una palude abitata da ranocchi (secondo la malevola descrizione di papa Pio II) in una città moderna, chiamando alla sua corte artisti del calibro di Leon Battista Alberti e, appunto, di Andrea Mantegna.
Per averlo al suo servizio Ludovico non ha badato a spese. Gli ha garantito un ottimo salario, vitto e alloggio e, in più, la promessa di una serie di onoreficenze. Insomma un'offerta di quelle che non si possono rifiutare. Mantegna, ovviamente, l'ha accettata e ora ricambia come meglio non si potrebbe.

Nella parete destra la tenda si apre per rivelare una scena quotidiana.
È come un'istantanea, tanto che sembra che i dignitari di corte non abbiano avuto il tempo di mettersi in posa e che qualcuno stia ancora arrivando, un po' trafelato, dalla porta sulla destra.
E Mantegna li ritrae, così come sono, senza lusinghe o compiacimenti.
Il marchese, in primo piano, tiene un documento tra le mani e si volta verso il suo segretario, mentre il cane preferito è accucciato ai suoi piedi.
Tutti sono elegantemente abbigliati: gli uomini in farsetto e calzebraghe con i colori dei Gonzaga, le donne in ricchi abiti damascati.
Al centro, seduta e imponente, è la moglie di Ludovico, Barbara di Brandeburgo, nipote dell'imperatore Sigismondo, che, con le sue alte parentele, ha dato lustro alla dinastia dei Gonzaga.
Attorno a lei ruota la vita di famiglia. È attorniata dai figli e ha accanto la dama di compagnia favorita, una delle nane, di cui i Gonzaga amano circondarsi, l'unica che guardi verso lo spettatore.


L'altra parete si apre su un paesaggio, ricco di riferimenti classici, con la veduta di una città, che rievoca la Roma. antica. Il marchese, con un seguito di cavalli riccamente bardati, cani, paggi e familiari, va incontro al figlio Francesco,  collocato al centro della scena con un'espressione compunta e soddisfatta. Non nasconde la sua contentezza per la nomina a cardinale che ha appena ricevuto. E, forse, è proprio questa la notizia che il marchese stava leggendo nella scena precedente e per cui aveva convocato tutti i cortigiani: per lui era la conferma dell'influenza e del potere della famiglia.

Cortigiani, cardinali, damigelle, cavalli, cani...ma, finora, nessuna traccia della nuvola misteriosa. Non ci resta che continuare a guardare.
Sopra la porta, in una targa sorretta da putti alati, l'artista, che si definisce  "suus Andrea Mantinia", dedica la sua opera al marchese.
È la consacrazione ufficiale del suo ruolo di pittore di corte. La firma qui c'è, ma non è certo quella che  stavamo cercando.
Comunque, se andiamo avanti e controlliamo anche i dettagli, una sorpresa la troviamo.

Sul pilastro accanto alla porta, ornato da una finta decorazione a stucco, tra tralci e volute, Mantegna ha inserito il suo autoritratto.
Ha scelto di non raffigurarsi in mezzo agli altri  cortigiani e si è rappresentato, invece, a parte, come una sorta di strano fiore, in un gioco scherzoso e allusivo che può equivalere a una firma.

Meno ufficiale e più privata, rispetto a quella della targa dedicatoria, ma non abbastanza misteriosa e, soprattutto, senza alcun legame con le nuvole.



Non c'è che da ricominciare a cercare e, magari, stavolta, alzare la testa e osservare bene l'oculo aperto nel  soffitto con il suo sfondo di un azzurro terso di cielo.


Dalla finta balaustra, che lo circonda, con uno straordinario scorcio prospettico, dame e putti  si sporgono, pericolosamente.

Una conca con una pianta di arancio è in bilico sul bordo e rischia quasi di cadere.

Le giovani donne, accompagnate da una esotica serva nera e da un pavone, sembrano divertirsi a spiare, non viste, quello che succede sotto di loro.

Per curiosare meglio due putti hanno, addirittura, infilato la testa nella balaustra.







Dettagli divertenti e bizzarri, un'atmosfera giocosa: questo sembrerebbe, davvero, il luogo più adatto.
E, in effetti, lo è.
Perché, se si osserva con attenzione, ci si accorge, finalmente, che, proprio qui, tra le nubi, compare il profilo di un uomo.
I lineamenti riprendono quelli dell'autoritratto dipinto da Mantegna, qualche anno prima, nella "Presentazione al tempio", ora a Berlino.

Non c'è dubbio: è proprio lui, che si è nascosto nel posto apparentemente più visibile, al centro della stanza.

E pensare che nessuno, fino a pochi anni fa, lo aveva scoperto.
Di sicuro Mantegna non prevedeva che i moderni strumenti di indagine (foto a luce radente o teleobiettivi) avrebbero rivelato quella sorta di “firma figurata”, che, per soddisfare il suo orgoglio di artista, aveva apposto nella cangiante materia delle nubi.





Dal suo aereo nascondiglio, per secoli, ha contemplato dall'alto quel mondo fittizio che aveva creato per celebrare i Gonzaga.
E là, celato dietro un candido e soffice schermo, forse ha capito che, nell'olimpo della pittura, il potere effimero del principe non conta e che l'unico che valga è quello eterno dell'arte.







L'autoritratto di Mantegna è stato scoperto da un grande studioso, Daniel Arasse, che ne ha parlato ne "Il soggetto del quadro.Saggi d'iconografia analitica"edizioni ETS 2009, pp.67-83, da cui ho tratto notizie e confronti.




sabato 14 aprile 2012

Settimana della cultura




"Quando il sole della cultura è basso, i nani hanno l'aspetto dei giganti"
(Karl Kraus)


Inizia oggi la XIV Settimana della cultura che durerà fino al 22 aprile.
In tutta Italia saranno aperti, con entrata gratuita, musei, teatri, aree archeologiche, palazzi, ville, biblioteche ...




In più, ci saranno visite guidate, conferenze, concerti, mostre...per comunicare e condividere con tutti il valore del patrimonio d'arte e cultura, in cui viviamo immersi, senza esserne, a volte, nemmeno consapevoli.





Ci sono innumerevoli ragioni per visitare questi luoghi, che fanno parte delle nostra memoria e della nostra storia e per partecipare a questa iniziativa
Il link al sito del Ministero per i beni e le attività culturali con l'elenco di tutto quello che è previsto nel corso della settimana è QUI

Spero che la partecipazione sia numerosa: bisogna tenere alto il sole della cultura.


 
 
 

L'immagine del post è tratta da un dipinto consevato presso la Piancotea Nazionale di Bologna

giovedì 12 aprile 2012

Il monumento funebre di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia: la bella addormentata




…in questa forma / passa la bella donna e par che dorma
(T. Tasso, Gerusalemme liberata, XII, 64-69)



Lucca, in questo lunedì di Pasqua, era assolata e bellissima.
Tanta la gente che affollava le strade. Tanta la gente che entrava nella chiesa di san Martino per visitare la tomba di Ilaria del Carretto.
Per i lucchesi di sangue o di cuore, come me, Ilaria è una presenza familiare.


Nei manuali di storia dell’arte il suo sarcofago, eseguito tra 1406 e 1408, è considerato il capolavoro di Jacopo della Quercia (1374 circa-1438).
Vi si legge che riprende motivi dell'antichità classica e che mostra, nell'iconografia, l’influenza della scultura gotica francese, insieme a un'attenzione, già quasi rinascimentale, per la definizione del volto e del corpo.

Tutto vero, ma non basta a spiegare la suggestione di questa scultura, che ha saputo incantare poeti come D’Annunzio, Quasimodo o Pasolini.

Ilaria era arrivata a Lucca a ventitré anni per diventare la sposa di Paolo Guinigi, signore della città, già trentenne e da poco rimasto vedovo. La prima moglie era morta, appena bambina, a dodici anni, troppo giovane per dargli un erede.
Paolo Guinigi l’aveva scelta per la sua bellezza, ma anche per le alleanze che poteva assicurargli suo padre, Carlo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale.
Quando arrivò per celebrare le nozze, nel febbraio del 1403, tutta la città fu conquistata dalla sua leggiadria. Furono tre giorni di banchetti ininterrotti. Gli uomini percorsero in corteo le strade della città. Le dame tirarono fuori dalle cassapanche i loro abiti più ricchi e i gioielli più lussuosi.
Le cronache del tempo raccontano di festeggiamenti di uno sfarzo straordinario, che si rinnovarono, nove mesi dopo, quando dette alla luce il primo erede maschio.

Sembrerebbe una favola. Questa volta, però, non c'è un lieto fine.
L’anno dopo, un secondo parto le fu fatale.
Era il dicembre del 1405 e aveva ventisei anni.

Il marito ne fu talmente affranto da non prendersi nemmeno la briga di smentire le voci di avvelenamento, ignominiose quanto infondate, che circolarono, da subito, in città.
Ilaria fu sepolta nella cappella di famiglia.

Paolo Guinigi si rivolse al giovane e promettente scultore senese Jacopo della Quercia, allora a Lucca, per celebrare, con un monumento funebre da porre nella cattedrale, la memoria della bellezza e della dolcezza della moglie.

L'artista realizzò un sarcofago con un basamento di ispirazione classica decorato da "amorini" reggi-ghirlande e, sui lati corti, dagli stemmi delle famiglie Guinigi e Del Carretto.





Ilaria giace distesa, con la testa appoggiata su due cuscini e le mani raccolte in grembo.
È abbigliata con un'eleganza che richiama la moda del nord-Europa: indossa una veste, aderente, con le maniche lunghe e il bavero rialzato. I capelli sono raccolti in una "ciambella", decorata da un nastro avvolto.

Il volto delicato, di un marmo, levigato fin quasi alla trasparenza, sembra accennare  un sorriso


Ai suoi piedi un cagnolino: è un motivo ripreso dai sarcofagi francesi, dove appare come un simbolo di fedeltà coniugale. Qui, però,  sembra animarsi e prendere vita.

Si volta con uno sguardo perplesso verso la padrona, quasi stupito di non poter più giocare con lei.
E continua a dimostrarle il suo affetto e la sua devozione.




L'atmosfera è di una dolcezza incantata. Non c'è nessuna idea di dramma o di sofferenza, tanto che non pare la raffigurazione di una morte, ma quella di una dormitio, di un sonno.
Ilaria sembra addormentata, quasi per magia, come la principessa di una favola, in attesa del bacio del principe che la risveglierà.

E, forse, il suo fascino sta proprio nell'indurci a pensare che l’abbandonarsi alla morte possa essere così: sereno come un lungo sonno, vegliato per l’eternità da un cagnolino fedele.









sabato 7 aprile 2012

Colombe




"D'altri diluvi ascolto una colomba"
(Giuseppe Ungaretti)









La colomba della pace, resa, con pochi tratti espressivi, da Pablo Picasso.











Quella lieve, composta di nuvole e di azzurro, di René Magritte.













E quella vista attraverso lo sguardo incantato di Jean-Michel Folon.








Sono tre  delle tante che percorrono i cieli della pittura.
Perché la colomba è uno dei simboli più antichi e più noti.

Nella mitologia è uno degli emblemi di Venere, la dea dell’amore.
Nella Bibbia, oltre a rappresentare lo Spirito Santo, è un segno di salvezza: fu la colomba a segnalare a Noè - portando un ramoscello d’olivo nel becco - che le acque del diluvio si erano ritirate.
Per tutti è legata all'idea dell'armonia e della pace.

Mi è parso che fosse l'immagine più adatta per questi giorni di Pasqua e di primavera.



 


Qui si parla della simbologia della colomba.

martedì 3 aprile 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Aprile




"Aprile dolce dormire": dicono i proverbi
"Aprile è il mese più crudele": afferma un poeta come Thomas S.Eliot

E sei secoli fa, nel calendario delle "Très riches heures" del Duca di Berry, cosa succedeva in questo quarto mese dell'anno?
Dopo il banchetto di gennaio, la neve di febbraio, gli incanti della fata Melusina di marzo, aprile è, finalmente, il momento dell'amore, o meglio, delle promesse d'amore.



Nella lunetta che sovrasta la scena, insieme al carro del sole, compaiono i segni astrologici del mese: Ariete e Toro.

La primavera è sbocciata: i prati sono di un vivace verde smeraldo e gli alberi si rivestono di foglie nuove
Sullo sfondo il castello di Dourdan, una delle proprietà del duca di Berry, con il borgo sottostante.
Ai suoi piedi scorre un fiume e, in un laghetto con una chiusa, due barche di pescatori tendono una rete.

In primo piano, sulla destra, in un giardino delimitato da un muro, gli alberi potati a spalliera mostrano i nuovi germogli.
Due ragazze, sul prato, raccolgono i primi fiori.
Atmosfera più adatta alle gioie amorose non ci potrebbe essere: è la cornice perfetta per la scena principale, con una coppia che si scambia gli anelli, di fronte a due testimoni.

È la rievocazione del fidanzamento che, qualche anno prima, nel 1410, aveva rafforzato quella rete di parentele che assicurava il potere del duca di Berry: la nipote undicenne, figlia di Bona di Berry e del conte Bernard d’Armagnac, si era fidanzata col sedicenne principe Charles d’Orléans.
I fidanzamenti e i matrimoni, all'epoca, non erano solo un patto d’amore: servivano, soprattutto, a garantire le alleanze più opportune, nel periodo tumultuoso della guerra allora in corso, tanto lunga da esser definita la guerra dei cento anni.

Gentiluomini e dame si sono abbigliati con abiti preziosi e coloratissimi.
Per celebrare la festa d'amore hanno dispiegato tutte le raffinatezze del loro guardaroba: ostentazione e lusso, in occasioni come questa, sono indispensabili.

Ricche sopravesti, azzurre, nere o rosse  imbottite di pelliccia, sottili vesti di seta con maniche strette, berretti e acconciature colorate, piume, spille e gioielli.
Non è rimasto niente negli armadi: è uno di quei momenti, in cui la famiglia del duca di Berry deve fare il massimo sfoggio. La "magnificenza" è lo stile del potere.
Sono loro che dettano la moda  e sono consapevoli della sua importanza.

Gli uomini si sono rasati le tempie le dame hanno schiarito al sole i loro lunghi capelli: il biondo è un obbligo per l’aristocrazia del tempo.





I miniatori, forse, hanno reso più snelle le silhouettes, ma di sicuro, non hanno esagerato l’eleganza dei gesti e delle posture.

Il calendario delle “Très riches heures” doveva essere una testimonianza dell’influenza e del potere del Duca, ma, come al solito, i miniatori, i fratelli de Limbourg e i loro collaboratori hanno trasformato tutto in una favola
Questa è l’atmosfera della corte che vogliono trasmettere: niente brutture, intrighi o violenze.
Grazie alla loro abilità, resta solo l’idea cristallizzata di un sogno di signorilità e di  raffinatezza.
E di un aprile di primavera e di sole, come quello che celebrerà, nei suoi versi, il giovane fidanzato della miniatura, il principe-poeta Charles d’Orléans:

Le temps a laisse son manteau
de vent de froidure et de pluie
et s'est vestu de broderie
de soleil rayant cher et beau

Il tempo ha lasciato cadere il suo mantello
Di vento, di freddo e di pioggia
E si è vestito di un tessuto ricamato
Di sole raggiante caro e bello