venerdì 22 febbraio 2013

Bruxelles: gli strani incontri di Tom Frantzen




Bisogna stare attenti a passeggiare per le vie del centro di Bruxelles.
In place Sainctelette, lungo il canale che passa dalla città, a chi cammina tranquillamente sul marciapiede, può capitare di imbattersi in una scena come questa:



Un tizio con un berretto in testa sbuca fuori all'improvvisoda un tombino, afferra per la caviglia un serio e corpulento poliziotto in uniforme, con tanto di baffi, elmetto e mantello, e lo fa inciampare.

"De vaartkapoen" è il titolo che compare in una targhetta, una parola dialettale (de vaart è il canale e kapoen lo sfacciato) che indicava, dapprima, i lavoratori del porto che si ribellarono all'occupazione austriaca delle Fiandre, e poi passò a definire i più sfrontati furfanti di strada che si battevano tra di loro o si divertivano a prendersi beffe della polizia.

La scena sembra uno scanzonato omaggio a un certo spirito di rivolta, libertario e anarchico, degli abitanti di questa parte della città. Anche se strizza l'occhio a Hergé (il creatore di quella celebrità nazionale che è Tintin) e a un suo personaggio: l'Agente 15, il poliziotto vittima degli scherzi dei due monelli “Quick e Flupke" di una delle sue prime serie di fumetti.

Il soggetto è un po' particolare, lo ammetto.

Ricordiamoci, però, che siamo nella città, che ha come nume tutelare il surrealismo di Magritte, che ha scelto come simbolo un bambino che fa pipi, il Manneken pis, bizzarramente travestito a seconda delle occasioni (ne ho parlato QUI) e che- per rimanere in tema di sculture- è l’unica al mondo a rendere omaggio ai piccioni viaggiatori morti in guerra, con un marziale monumento al "Pigeon soldat/il Piccione soldato" (ne ho parlato QUI)

Nessuna meraviglia, dunque, se, continuando a passeggiare in pieno centro, ci scontriamo in rue des Chartreux, nei pressi della Grand Place,  con uno "Zinneke"- la parola in dialetto definisce un cane bastardo- che, senza vergogna, con la gamba levata contro un paracarro, assolve alla stessa necessità fisiologica del Manneken. 
Sarà l’effetto della troppa pioggia.


E nemmeno ci stupiamo se, all'angolo di due vie affollate, rue Moineaux e  rue du Midi, vicino all'imponente edificio delle Mutualités socialistes, una vecchia signora, con la sua capiente sporta della spesa, da cui esce l’immancabile gambo di porro, si è fermata a contare tranquillamente i soldi del borsellino, senza preoccuparsi di essere un facile bersaglio per qualunque borseggiatore. Nella targhetta si specifica che si tratta di Madame Chapeau, il personaggio di una fortunata commedia  della fine degli anni Trenta, rimasta a lungo nella memoria popolare.

Un gendarme beffato, un cane sfacciato, una signora imprudente. Tre sculture in bronzo, a grandezza naturale, che si mescolano tra la gente che affolla la città.
L'autore è Tom Frantzen, un artista nato Bruxelles  nel 1954: è lui che, utilizzando come scenografia veri elementi dell’arredo urbano, ha messo in scena  queste piccole e bizzarre istantanee. 
Ha voluto ricreare così lo spirito ironico e irridente tipico della città, lo ”zwanze”, un senso dell’umorismo, fatto, insieme, di arguzia, di malinconia e di un pizzico di follia. I titoli in dialetto rendono omaggio al gergo dei quartieri popolari, in cui si mescolano francese e fiammingo.

Ho letto che ltre opere, piene di ironia e di leggerezza, sono state commissionate da comitati di quartiere e da amministrazioni pubbliche per essere destinate a spazi collettivi.
Il motivo è riassunto così nell'articolo di un quotidiano: "Sono state pensate apposta per dialogare con la gente, perché i passanti abbiano la possibilità di un momento di divertimento e di un sorriso"

Non saranno capolavori destinati a sfidare i secoli, non offriranno messaggi dirompenti, né saranno citate nelle guide del Touring,  ma mi sembra che  il loro compito lo assolvano bene. Con semplicità e umiltà. 
E, poi, "un momento di divertimento e un sorriso" di questi tempi non sono davvero da sottovalutare.





venerdì 15 febbraio 2013

Il"Ballo in campagna" di Renoir: una storia d'amore





Oggi ho visto, per strada, le locandine del film su Renoir, da poco uscito nei cinema di Bruxelles. Nell'aria c'era ancora un pizzico di romanticismo del san Valentino appena passato. Non c’è da stupirsi che mi sia venuto in mente questo dipinto, oggi a Parigi al Musée d’Orsay. 
L'autore è Pierre-Auguste Renoir e dietro, ovviamente, c’è una storia d’amore.


In una serata d'estate ancora piena di luce, su una terrazza ombrosa, una coppia  sta danzando, isolata dagli altri che si intravedono più in basso. 
Lei sorride radiosa con un ventaglio in mano, mentre il suo compagno, attento e premuroso, la guida nel ballo. Indossa un vestito di una lieve mussolina fiorita, guanti chiari e un vezzoso cappellino rosso: nessuna giovane perbene, all'epoca avrebbe frequentato un luogo pubblico senza guanti e a testa scoperta. 
Sembra contenta di lasciarsi andare alla gioia del ballo e alla felicità del vivere.
Sul pavimento, qualcuno ha abbandonato un cappello di paglia. Sul tavolo, invece, ci sono i resti di un pranzo che i due, troppo presi dalla musica e dalla voglia di ballare, non hanno finito. 
I giochi di ombra e di luce rendono fluidi i contorni e quasi li dissolvono.

Siamo nel 1883 e il mercante d’arte Durand-Ruel, ha commissionato la tela, insieme ad altre due dello stesso tema: il “Ballo in città” e il “Ballo a Bougival”.
Renoir ha scelto come  modello maschile un suo amico, Paul Lothe. 
La donna, invece, è la sua compagna, l’amore della sua vita: Aline Chargot. 
Di sicuro rivede nella sua espressione felice i momenti sereni che hanno vissuto insieme. 
A tutt'e due  piace andare a ballare e frequentare le sale popolari che Renoir ama ritrarre nei suoi dipinti. A Parigi si ritrovano, nei pomeriggi di festa, al Moulin de la Galette, sulla collina di Montmartre con gli operai, i pittori bohémien, o qualche ricco borghese che ha voglia di divertirsi. 
Oppure, appena fuori città, sulla Senna, alla "Grenoullière", dove i canottieri mangiano a poco prezzo e c'è sempre qualcuno che suona il piano in un'improvvisata pista da ballo.
Quando si  sono incontrati, in una latteria di rue Saint Georges, vicino allo studio del pittore, Aline aveva ventidue anni e Renoir trentotto. 
Era arrivato a Parigi, per dedicarsi alla "grande pittura" nel 1861, dopo aver lavorato a Limoges, la sua città natale, in un’atelier di decorazione su porcellana.  
Pur di dipingere è disposto a ogni sacrificio: non ha un soldo, vive con poco, ma nel suo piccolo studio di Montmartre, non smette mai di lavorare.  Ammette di "avere, da sempre, un vero culto per la bellezza femminile": le donne sono il suo soggetto preferito. 
Per loro ha un grande rispetto: "conosco dei pittori che non fanno nulla di buono, perché, invece di dipingere le modelle, le seducono": gli piace ripetere. 
Non è un intellettuale, né ama parlare d’arte: si dice che, quando gli amici pittori, ai tavolini di un caffè, si lanciano in interminabili discussioni, li ascolti distrattamente, sbocconcellando un pezzo di pane.

Quando conosce Aline, è in piena crisi. 
Fino ad allora ha condiviso con entusiasmo, l’idea degli  impressionisti di una pittura libera, en plein air, che catturi la luce e  la riproduca, fino a dissolvere le forme. 
Ha lavorato, quasi a gara con Monet, dipingendo direttamente, col cavalletto, i paesaggi della Senna. Ma ora sente di essere a una svolta: ha deciso di percorrere un’altra strada, recuperando la tradizione dei maestri del passato. 
"Sono così confuso che mi sento annegare"-: dice e sa che ha bisogno, come non mai, di ritrovare un punto fermo.
Aline è una solida campagnola che viene dalla  Borgogna e lavora come sartina in un laboratorio di Montmartre. Sempre allegra e sorridente, con i capelli rossicci, il naso all'insu e la pelle di porcellana, ha l’aria di una gattina e  uno di quei fisici rotondetti che sono i preferiti di Renoir. 
"È uno di quegli esseri privilegiati che gli dei hanno preservato dall'orrore degli angoli acuti": dice di lei. 
Tra i due è stato un colpo di fulmine. Lei si è innamorata da subito di quell'uomo taciturno che vive per la pittura. "Quando dipingeva, anche se non capivo nulla, mi incantava": racconta. 
Nel libro di ricordi del figlio dei due, il celebre regista Jean Renoir, la loro storia d’amore sembra diventare un film.  
Pare quasi di vedere un Renoir che ha paura di quella giovinezza e dei suoi sentimenti e che si rifugia in un viaggio dal sud della Francia, all'Algeria   e all'Italia  
Non resisterà a lungo. Sulla via del ritorno, impaziente, telegrafa ad Aline l’ora del suo arrivo. Quando la trova ad aspettarlo in stazione, c'è solo un lungo abbraccio. 
Da allora in poi non si lasceranno più.

Ed eccola ritratta, su uno sfondo chiarissimo, con un allegro cappello di paglia, decorato di fiori primaverili, le guance arrossate e l’espressione sbarazzina, dopo il matrimonio e la nascita del figlio Pierre.
Aline sarà  la modella preferita di Renoir, ma non entrerà mai nel mondo delle "muse inquiete" dei pittori: rimarrà sempre fedele alla sua freschezza e alla sua autenticità.
I suoi modi franchi e il suo accento borgognone dalla erre ben arrotata finiranno per conquistare  perfino un misogino dichiarato come Degas, a cui "sembrava l’unica regina vera tra quelle false".
Per Renoir, la sua naturalezza è fondamentale: detesta le convenzioni sociali e l’artificio, anche nell'arte. 
A quella che definisce "l’art en redingote/ l’arte in doppio petto" oppone la sua visione di una pittura spontanea e gioiosa, che non rinunci, perȯ, ai modelli dei grandi maestri, da Raffaello a Rubens.
Illuminato dalla presenza di Aline, cercherà di “dipingere la felicità dell’istante, senza troppi fronzoli e con una tavolozza intrisa dei colori dell’arcobaleno”
E, come nel "Ballo in campagna", di fissare per sempre nel tempo la gioia effimera di un momento perfetto.





venerdì 8 febbraio 2013

Il "Martirio di sant'Orsola" di Caravaggio




Ho passato tre giorni di vacanza a Napoli, pochi per dire di aver visto la città, sufficienti, però, per subirne il  fascino.
Tante le immagini che mi sono rimaste in mente, anche se, a distanza di tempo e di chilometri, una su tutte si è stampata nel libro dei ricordi. 
È un dipinto noto. Uno di quelli su cui sono stati scritti fiumi d’inchiostro e che ha girato per tutte le mostre d’Italia e d’Europa.
Le circostanze hanno aiutato.
Siamo entrati a Palazzo Zevallos Stigliano, la sede della Banca Intesa, che l’ha acquistato nel 1972, quasi all'ora della chiusura, in un silenzio totale. 
Il contrasto con l’animazione fragorosa di fuori ha reso l'impressione ancora più forte. E, poi, il fatto di vederlo a Napoli, nella città in cui era stato eseguito è come se lo avesse completato e arricchito di significato. 
Sto parlando del “Martirio di sant’Orsola” di Caravaggio:



A Napoli, nel maggio del 1610, Caravaggio ha ancora sul viso i segni dell’aggressione subita, qualche mese prima, uscendo da una locanda nei vicoli del vecchio porto. Lo avevano dato per morto e lasciato a terra sfigurato dai colpi di coltello. 
È sempre più stanco e provato, ma ha bisogno di soldi e sa che non può smettere di lavorare. Per questo ha accettato la commissione di un nobile genovese, Marcantonio Doria, figlio del doge Agostino, conosciuto durante un breve soggiorno a Genova, cinque anni prima. 
Come sempre dipinge rapidamente, senza disegni preliminari. 
Ai primi del mese il quadro è pronto e lo può consegnare, anche se la vernice è ancora fresca. Nella fretta di inviare la tela a Genova, il procuratore dei Doria pensa bene di metterla ad asciugare al sole, come racconta in una lettera inviata a Marcantonio.
La decisione si rivela un errore. Caravaggio aveva usato una vernice “grossa”, fatta d’olio di lino e di sandracca. Al sole, anziché asciugare, si scioglie ancora di più, tanto che sarà costretto a riparare i danni. 
Alla fine, la tela imbarca per Genova e, il 10 giugno, arriva a destinazione.

Il soggetto scelto da Marcantonio Doria è un "Martirio di sant'Orsola", probabilmente in omaggio alla figliastra che aveva preso il velo, col nome di suor Orsola, in un convento napoletano.
Secondo il testo più diffuso delle vite dei Santi, la "Leggenda aurea", Orsola, figlia del re di Bretagna, al ritorno da un pellegrinaggio a Roma, accompagnata da undicimila vergini, si sarebbe fermata a Colonia. 
Gli Unni, che assediavano la città, compirono un vero e proprio eccidio, uccidendo tutte le giovani, colpevoli di aver voluto mantenere la loro fede e la loro purezza. 
Il capo degli Unni, Attila, colpito dalla bellezza  e dal coraggio di Orsola, la chiese in moglie e, al suo rifiuto, "veggendosi schernito, diede mano a un arco e trafissela d’una saetta".

Caravaggio, contrariamente alla tradizione, sceglie di raffigurare solo l’atto finale della storia. 
La scena si svolge in uno spazio buio, ristretto e quasi claustrofobico: la tenda di Attila, che si intravede sullo sfondo, è  semi-aperta, come fosse la quinta di un teatro. I protagonisti emergono dall'ombra come fantasmi; vittima e carnefice sono vestiti di un rosso che pare isolarli dagli altri.

L'azione, quasi fosse il fotogramma di un film, è bloccata nell'istante immediatamente successivo all'omicidio.
Attila non ha ancora finito di tendere l’arco che la freccia è già  scoccata, tanto che la luce, che arriva da sinistra a destra, ne segue traiettoria.
Orsola, appena colpita, ha ormai i colori della morte: china la testa e contempla con rassegnazione e stupore la ferita al petto, cercando di comprimerla con le mani. 
Senza capire quello che sta accadendo e senza soffrire.
Non c'è nessuna aureola. Non c'è alcun segno di gloria celeste, né di presenze angeliche: il martirio sembra restare incomprensibile anche a chi lo subisce.

Attila, abbigliato come un arciere del Seicento in corazza e cappello piumato, ha il volto di un vecchio. 

Stravolto da una smorfia, con lo sguardo sbigottito  pieno di compassione e di rimpianto, quasi si pentisse del gesto appena compiuto, trattiene, a mala pena, un urlo.




Ma l’invenzione più straordinaria è la mano di uno degli astanti, riapparsa solo dopo l’ultimo restauro. 

Una mano che compare quasi dal nulla, davanti a Sant'Orsola, come  a fermare il  tempo e riportarlo indietro, all'attimo prima che tutto succeda.





Alle spalle della Santa un uomo  che ha le  fattezze 
di Caravaggio è testimone e complice. Assiste alla scena travolto, come tutti,  dalla stessa sensazione di incredulità e incomprensione. 
In pochi dipinti si avverte così forte la presenza inesorabile del male e della morte: c'è la consapevolezza che nessun gesto o nessun ripensamento potrà fermare il destino.
La freccia è stata scoccata e ognuno dovrà andare incontro alla sua sorte.
Orsola sarà la martire e Attila il carnefice. Per sempre.

In Caravaggio la sensazione dell'inevitabilità del male è costante. 
Sa che nemmeno il suo destino potrà cambiare.
La sua vita è stata  scapestrata e violenta. Lo era, fin da quando,  arrivato dalla Lombardia, girava per Roma con un cappellaccio, un mantello nero e uno spadone al fianco, pronto ad attaccare briga con tutti e a infuriarsi per un nonnulla, frequentando aristocratici e prostitute, palazzi e osterie. 
La sua inquietudine e il disagio di vivere, lo hanno sempre spinto verso la violenza. Fino ad arrivare all'omicidio: con un colpo di spada, quattro anni prima, ha provocato la morte di un uomo; si dice  per una stupida discussione al gioco della pallacorda.

Forse ne è pentito. Anche lui avrebbe voluto trattenere quel colpo, evitare quella morte che lo ha costretto a fuggire da Roma, condannato alla decapitazione. 
Da quattro anni è in fuga; è solo, anche se può contare sull'aiuto di illustri protettori. 
Fa tappa a Napoli, a Malta in Sicilia e poi ancora a Napoli; vive l'esistenza affannosa di chi si sente braccato, senza mai  potersi abbandonare alla dolcezza, se non alla serenità, della vita. E, ciò nonostante, non cessa mai di dipingere.
Non può sapere che la "Sant'Orsola" sarà la sua ultima opera, ma, in qualche modo, sente che sta arrivando alla fine
Anche per lui la freccia è stata scoccata: come i protagonisti del dipinto, dovrà percorrere il suo destino, fino in fondo.

Troverà la morte, a poco meno di quarant'anni, un mese dopo la consegna del quadro, il 18 luglio del 1610. Era appena ripartito da Napoli, ancora in fuga, sotto un sole implacabile
Nel frattempo il provvedimento di grazia era stato firmato e il ritorno a Roma era già possibile.





Tutta la storia del quadro è ripercorsa  nel libro di V.Pacelli, ll martirio di Sant'Orsola di Caravaggio per Marcantonio Doria, Napoli,ed Paparo, 2011

domenica 3 febbraio 2013

Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento: febbraio




Il tempo passa velocemente e quasi mi scordavo che è già il momento di staccare il secondo "foglio" del calendario di quest'anno.
L'affresco di Febbraio del Ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento si svolge in una parete della Sala con una finestra che affaccia sull'esterno.



Il freddo e la neve che dominavano l'aperta campagna del mese di gennaio sono lontani. Ora la scena sembra ambientata piuttosto in città, sullo sfondo rossastro delle mura del castello. 

In basso a destra, è rappresentata la bottega di un artigiano. 
Fin qui la società raffigurata in questo calendario- come in quello delle "Très riches heures du duc de Berry" dell'anno scorso- pareva composta solo di aristocratici e di contadini: gli svaghi dei nobili e i lavori dei campi erano rappresentati insieme, un mese dopo l'altro, in un accordo tanto armonioso quanto lontano dalla realtà.

Ed ecco, che ora, al posto delle consuete attività agricole, compare l'interno di una fucina con tanto di mantice e arnesi del mestiere bene in vista. Al centro c'è un fabbro intento al lavoro, con una bella barba bianca, come quella che sfoggiavano i saggi o i letterati e il viso che sembra arrossato dal calore e dalla fatica.
Probabilmente è un maniscalco che sta forgiando i ferri dei cavalli, destinati a essere usati nella scena che si svolge in alto: come i contadini anche gli artigiani erano al servizio dei signori.

Febbraio era, anche allora, il mese del carnevale, il periodo dell'anno, in cui, nelle piazze e nelle strade, si poteva finalmente dare sfogo alla voglia di ridere e di burlarsi dei potenti. 
Quelle feste popolari, spesso scatenate e sboccate, non potevano certo trovar posto negli affreschi commissionati da un dignitoso principe-vescovo, come Giorgio di Liechtenstein. 
Meglio evitare, nelle pareti della sala di rappresentanza, ogni manifestazione di allegria volgare o troppo sfrenata. Se una festa si doveva rappresentare, era preferibile sceglierne una più consona alla dignità del luogo e al ruolo del committente. 
E, allora, niente di più opportuno di un torneo, lo svago per eccellenza dell'aristocrazia e il simbolo stesso della vita di corte. 
Un "combattimento leale e senza odio", regolato da un rigido cerimoniale e da un severo codice d'onore: l'occasione perfetta per i nobili partecipanti per dimostrare il loro valore e la loro abilità.




Qui, due gruppi di quattro cavalieri si affrontano, lancia in resta, con i loro destrieri, le armature e le bardature ornate dei colori araldici. 
I paggi e i servitori collaborano alla vestizione o raccolgono le punte delle lance spezzate al suolo, dove la terra battuta è segnato dalle impronte dei ferri dei cavalli. 
Affacciate agli spalti e alle finestre del castello giovani dame, riccamente abbigliate, assistono alla sfida, ammirando l'abilità e la lealtà dei cavalieri, fieri di ostentare, davanti ai loro occhi, tutto il loro coraggio.

Il sole di febbraio illumina  questa favola cortese, di cui  fanno parte tutti, dai cavalieri, ai paggi, alle dame, al fabbro nella sua fucina.
Lo stile del pittore non è certo dei più raffinati, ma il principe-vescovo, guardando l'affresco sullo sfondo dei suoi possedimenti al di là della finestra, poteva forse sognare di esibire, nel suo piccolo feudo di periferia, almeno un bagliore della magnificenza e dell'eleganza di un gran signore.