giovedì 27 marzo 2014

"L'origine della via lattea" di Tintoretto




Un cupo imperatore sempre chiuso nel suo castello, un pittore indaffarato e un antico mito dimenticato. 
E, infine, questo quadro, ora alla National Gallery di Londra:


Che succede sull'Olimpo? Nella camera di Giunone regna il caos: il grande letto a baldacchino con le lenzuola candide e i preziosi drappi di seta è tutto in disordine. 
Intorno, gli Amorini svolazzano confusi con il loro armamentario di fiaccole accese, di frecce e di reti di inganni. I due pavoni, sacri alla Dea, guardano impauriti da un angolo.
La causa di tanto sconquasso è l'improvviso arrivo di Giove, accompagnato dall'aquila che custodisce i suoi fulmini tra gli artigli.
Il padre degli Dei ne ha combinata un'altra delle sue. 
Ha approfittato del sonno della moglie Giunone per precipitarsi ad attaccarle al seno il figlio Ercole, avuto da uno dei suoi tanti amori illegittimi: sa bene che il latte della Dea è l'unico modo per assicurare al bambino l'immortalità. 
Ma il piccolo Ercole, vigoroso fin da neonato, comincia a prendere il latte con una tal voracità da svegliare la dea che, stizzita, si alza di colpo e lo respinge. 
La storia non finisce qui: le gocce di latte che schizzano nel cielo vanno a formare le stelle splendenti della Via lattea, mentre quelle cadute sulla terra faranno nascere candidi gigli.

Così Tintoretto (1519-1594) narra, per la prima volta in pittura, l'origine della Via lattea, recuperando un antico mito, di cui si era persa memoria. Siamo negli anni '80 del Cinquecento e Tintoretto, dopo la morte di Tiziano, è il pittore più richiesto di Venezia. 
Il lavoro è davvero tanto nella sua bottega sul Rio della Sesa, dove si è trasferito con i figli e uno stuolo di collaboratori. 
A prima vista lo si direbbe fin troppo occupato a riempire con le sue grandi tele di storie di Santi le chiese e le sedi delle Confraternite, per mettersi a ricercare mitologie inconsuete da riproporre nei suoi dipinti. 
E poi, come gli piace ripetere, lui non è un intellettuale, ma un artigiano: piuttosto che stare a capo chino sui libri a riscoprire vecchi racconti, preferisce sperimentare, mescolare colori o, creando modellini, studiare luci e ombre delle sue complesse composizioni. 

Ma Tintoretto  è anche un uomo d'affari ed è pronto a soddisfare ogni desiderio dei committenti, soprattutto quando si tratti di personaggi illustri e disposti a pagare bene. In quel periodo ne ha giusto trovato uno e non intende lasciarselo scappare. 
A Venezia, da tempo, arrivano "antiquari" e mercanti d'arte da tutta Europa per acquistare opere da proporre agli esponenti della più alta aristocrazia:  la pittura veneziana, con i suoi sontuosi colori, ha conquistato tutti. 
Ottavio Strada è uno di questi. Figlio di Jacopo immortalato in un ritratto da Tiziano (ne ho parlato qui), ha ereditato dal padre un grande fiuto per gli affari, un occhio capace di distinguere i capolavori e, soprattutto, il ruolo di procacciatore di opere d'arte per uno dei collezionisti più titolati: Rodolfo II d'Asburgo. E ora sta cercando per lui, qualche dipinto mitologico, qualche "favola", con cui si possa dilettare. 

L'imperatore Rodolfo, si professa pubblicamente "cattolicissmo", ma- e non è l'unico- nel segreto delle sue stanze, preferisce ai quadri devoti, soggetti mitologici, magari arricchiti dal sottile erotismo di qualche bel nudo.
Introverso, e malinconico, ha ceduto quasi tutto il potere al fratello, per dedicarsi a Praga, dove ha trasferito la sua corte, al suo gusto per le raccolte d'arte e alla sua passione per le bizzarrie, incrementando con gli oggetti più disparati la sua Camera delle meraviglie. 
È un grande appassionato di astrologia e di alchimia e alla sua corte ospita artisti raffinati, ma anche maghi e cultori di scienze occulte, che spera possano trovare rimedio alle sue inquietudini. Si sa che per avere quello che vuole è disposto a spendere qualsiasi cifra.
Insomma, a un personaggio del genere, che, a detta dei contemporanei, "disprezza l'ordinario e non ama che lo straordinario e il meraviglioso" non basta, certo, una "favola" qualsiasi. 

Ottavio Strada ha subito commissionato il dipinto a Tintoretto: lo conosce da tempo ed è convinto delle sue capacità. Ma ora il problema è scoprire un soggetto capace di solleticare la curiosità del suo incontentabile imperatore. 
Il caso, o il destino, stavolta danno una mano.
Proprio in quegli anni è stato ripubblicato a Venezia un antico testo bizantino, in cui si narra  di mitologia greca e delle origini della Via Lattea. 
Forse è lo stesso Ottavio Strada o forse qualche dotto amico a suggerire a Tintoretto quel racconto talmente suggestivo da accontentare ogni fantasia. 
Ora la responsabilità di dare immagine alle parole è tutta del pittore. E lui, da par suo, ci riesce. Quel "praticon di man", come lo definisce  Marco Boschini nel 1660 nella sua "Carta del navegar pitoresco", sa bene come restituire vita a quell'antico mito.

colori vivi, i dettagli accurati, come le perle che ornano i capelli di Giunone o il bordo ricamato del baldacchino, la composizione mossa  con figure in diagonale e l'invenzione dello scorcio ardito del corpo di Giove, fanno del dipinto uno di quei "teatri pittorici", per cui è diventato famoso.  Il corpo bianco della Dea spicca sul candore delle lenzuola e dà luce all'intera composizione, mentre le stelle, nate dalle gocce di latte, si incastonano nel cielo, color dell'indaco, come brillanti. 
In più, da artista consumato qual è, riesce anche a strizzare l'occhio alla passione di Rodolfo per l'astrologia: i fulmini che l'aquila, simbolo di Giove, ma anche del potere imperiale, tiene tra gli artigli, prendono la forma di un granchio e alludono al cancro, suo segno astrologico. Mentre la fiaccola e le frecce degli Amorini possono ricordare i misteriosi simboli dell'alchimia. 

Mescolando piacere per gli occhi e riferimenti nascosti, Tintoretto ha superato la prova: avrà il suo compenso e il quadro entrerà  a far parte, fra le opere più belle, della collezione di Rodolfo d'Asburgo. 
Tutt'e due, pittore e imperatore, possono dirsi soddisfatti.
E chissà che entrambi non si sorprendano talvolta, guardando il cielo, a immaginare, trasformate nelle brillanti costellazioni della Via lattea, le candide gocce di latte della regina degli dei.




Per l'iconografia del dipinto un link è qui.
Qui e qui sono link a due video che parlano del quadro.

mercoledì 19 marzo 2014

Toulouse Lautrec, "La Goulue che arriva al Moulin Rouge": il pittore e la ballerina




Ci sono dipinti capaci di suggestionare e di lasciare con la curiosità di sapere chi siano i protagonisti e quale sia la loro storia.
"La Goulue che arriva al Moulin Rouge" oggi conservato al MoMa di New York è uno di questi:



Una donna con i capelli rossi, un nastrino nero al collo e un abito scollato fino a lasciare intravedere il seno, compare, in primo piano, quasi fosse colta in un’istantanea, sottobraccio a due donne vestite di nero, che sembrano farle da cornice.
È la Gouloue, una ballerina; il pittore che la ritrae è Henri Toulouse Lautrec (1864-1901) (di lui ho parlato anche qui)
Apparentemente i due non potrebbero essere più diversi: lui discende da una famiglia ricca e di antica nobiltà; lei, poverissima, ha fatto tutti i mestieri, prima di far fortuna come ballerina di cancan. 
Siamo a Parigi nel 1892, dove tutt'e due si sono trasferiti giovanissimi con il sogno di una vita diversa. E a Parigi si sono incontrati in un locale ai piedi della collina di Montmartre, dove, ai tavolini, tra fumo di sigari, odore di assenzio e di sudore, si mescolano aristocratici e popolani: il Moulin Rouge.
Da quando è stato aperto, nel  1889, quel vecchio mulino riadattato a locale notturno, ha avuto un gran successo; proprio lì è nato il nuovo ballo, di cui si sente parlare dappertutto: il cancan. Ed è stato subito uno scandalo, alimentato da  articoli sdegnati  sui giornali e da qualche retata della Buoncostume. 
In un periodo, in cui la sola vista di una caviglia fa fremere d'emozione, non c'è da meravigliarsi se il pubblico accorra a frotte per vedere ballerine scollate mostrare, nella danza, le gambe inguainate in peccaminose calze nere. 
La Goulue è una di loro. 
Viene dalla miseria di una piccola cittadina dell'Alsazia, si chiama Louise Weber, ma l'hanno soprannominata la Goulue, l'ingorda, per il suo appetito insaziabile e per l'abitudine di bere gli avanzi dai bicchieri dei clienti. 
Eccentrica e sfacciata, si dice si diverta a far  saltare, con un colpo di tacco, i  cappelli a cilindro degli avventori più eleganti. E che non abbia soggezione di nessuno:  le sue battute, tra ingenuo e malizioso, fanno il giro di tutta Parigi. 
Eppure, alla sua sfrontatezza si mescola spesso il candore di una bambina. Anche quando balla uno dei suoi cancan indiavolati e lancia la gamba in aria nella "spaccata", mantiene- come scrive un cronista- " il suo modo speciale  di rialzare fino all'ombelico la sua veste di tulle con una grazia infantile". 
Quel misto di impudenza, di innocenza e di vitalità sembra fatto apposta per attirare uno dei frequentatori più assidui del locale: Toulouse Lautrec.

Nato nel 1864, sarebbe diventato uno dei tanti aristocratici ufficiali di carriera se una debolezza genetica e un incidente non gli avessero lasciato una deformità fisica evidente: un busto normale e le gambe di un bambino.
Arrivato a Parigi, una decina d'anni prima, si è sentito subito libero di dar corso alle sue passioni: una, ovviamente è la pittura, l’altra quella di vivere di notte, frequentando case chiuse, locali notturni o cabaret. Fino a diventare, lui "piccolo, piccolo e nero, nero", come lo definisce uno dei suoi amici, "l'anima di Montmartre". 
In quel mondo, che molti definiscono equivoco, si sente, accettato per quello che è senza compatimenti o commiserazioni. 
Lì dà sfogo alla sua voglia di dipingere, girando da un caffè all'altro, passando tutta la notte a bere, portando con sé il suo immancabile album da disegno. 
E ritraendo la gente che incontra: attori, cantanti, prostitute, senza critica sociale, né pregiudizi. 


Al Moulin Rouge si trova bene e si è subito affezionato alla Goulue, per la sua chioma rossa e- come gli piace dire- per "quel poco di bruttezza, che la salva dalla perfezione". Ironico, divertente, sempre pronto all'autoderisione, sa trattaria con quel misto di cameratismo e desiderio che a lei non dispiace e i due sono diventati amici. 
Tanto che l'ha scelta nel 1891 come protagonista del manifesto pubblicitario del Moulin Rouge, raffigurandola, su un fondo giallo, circondata da silhouette nere e accompagnata, in controluce, da un'altra gloria locale, un ballerino talmente dinoccolato da essere soprannominato Valentin le desossé.
Grazie a questo manifesto, diffuso dappertutto,  il Moulin rouge e la Goulue sono ormai noti in tutta Parigi. 
Ma anche Toulouse Lautrec, col suo stile derivato dalle stampe giapponesi, i suoi colori vivi, il suo tratto deciso, è diventato d’improvviso famoso. 
Quell'incontro improbabile sembra aver fatto bene a tutt'e due.

E, ora, un anno dopo, il pittore ritrae ancora la sua ballerina. 
Ma, stavolta, nessuna pubblicità: è un ritratto più intimo, dove lascia emergere i sentimenti nascosti dietro la frenesia e l’allegria esibita del cancan, 
Semplificando le forme, stendendo un colore fluido, dove predominano i verdi contrapposti al rosa, al nero e all'arancio, fissa sulla tela, con il suo stile immediato e sintetico, un momento di malinconia e di amarezza. Probabilmente uno dei tanti che hanno condiviso.
La Goulue sa bene che la sua fama di ballerina è destinata a durare poco. Altre più giovani e belle sono già pronte a rimpiazzarla, tanto che, qualche anno dopo, cercherà di rifarsi una carriera nel circo, prima di sprofondare nell'alcolismo e nella miseria.

Ha poco più di vent'anni al tempo del ritratto, ma in quella sua espressione stanca e assente è come se portasse il peso di tutta una vita.
"Non voglio dipingere il bello, voglio dipingere il vero": usava dire Toulouse Lautrec e, nel ritratto della sua compagna di tante notti folli e disperate, è riuscito a restituire alla Goulue, anzi a Louise Weber, la sua più profonda verità 

Toulouse Lautrec e la Gouloue in una foto d'epoca



Per la vita della Goulue il link è qui 
Un sito completo sull'opera di Toulouse Lautrec è qui

venerdì 14 marzo 2014

Jan van Eyck, " La Madonna del Cancelliere Rolin": l'universo in un dipinto



"Vedere un mondo in un granello di sabbia e un universo in un fiore di campo..." (William Blake)  


Un quadro non molto grande (66x62 cm), eppure in grado di contenere un mondo, la "Madonna del cancelliere Rolin" di Jan van Eyck (1390 ca-1441), attualmente al Louvre:


Siamo intorno al 1435 nella fastosa corte dei Duchi di Borgogna. 
In una sontuosa sala, col pavimento intarsiato e un loggiato aperto, è inginocchiato in preghiera, Nicolas Rolin, il potentissimo cancelliere di Filippo il Buono, un uomo che molti, in segreto, definiscono ambizioso, astuto e privo di scrupoli. Parlano della sua avidità, di una fortuna immensa accumulata partendo dal nulla e della sua voglia di esibire la posizione che ha raggiunto. 
Per questo- dicono-  ha commissionato il quadro, destinato alla cattedrale di Atun, la sua città natale, a Jan van Eyck (della sua pittura ho parlato qui e qui
Ottenere un dipinto di van Eyck non è da tutti: l'artista, all'epoca, non è solo pittore di corte, ma anche "valet de chambre" al servizio del Duca, con un ricco appannaggio annuo.
Se vuole, può rifiutare qualunque commissione, ma sa bene che a Nicolas Rolin è impossibile dire di no.
Lo ritrae, dunque, con un abito di broccato, intessuto di fili d'oro e foderato di pelliccia, lo stesso indossato, una decina d'anni prima, per la sua investitura a cavaliere. 
Anche se ha dovuto cancellare- come hanno rivelato le riflettografie- il borsellino che aveva raffigurato appeso alla cintura, un'allusione forse troppo esplicita alla ricchezza, è riuscito, comunque, a ricreare intorno a lui un'atmosfera di agio e di lusso
E, poi, non è un caso se la luce che illumina la stanza sia quella chiara dell'alba e se il Libro d'ore, che il cancelliere tiene tra le mani, sia aperto sulla preghiera del mattino. 
Troppo occupato negli affari di corte, ha ottenuto dal Pontefice un permesso speciale per far celebrare messa nelle sue stanze prima che venga giorno.
E vuole che il dipinto ricordi questo privilegio, tanto è orgoglioso di aver trattato direttamente col Papa. 

Altro che col Papa! A prima vista sembra che Nicolas Rolin sia in grado trattare da pari a pari addirittura con la Madonna:  le due figure hanno le stesse proporzioni e nel dipinto non c’è nemmeno- come usava all'epoca- il Santo omonimo del committente a fare da intermediario. 
La Vergine indossa un sontuoso manto rosso- il colore della regalità- decorato da un bordo ricamato d'oro e tiene in braccio un Bambino biondissimo, che regge tra le mani un globo di cristallo sormontato dalla croce.
Lo sguardo del cancelliere, però, non incontra quello della Madonna e tra i due non c’è alcun rapporto; entrambi sembrano isolati e assorti in se stessi. 
Quella che van Eyck rappresenta non è, dunque, una Sacra conversazione, ma una visione interiore, frutto della  preghiera e della meditazione. Un'apparizione, dunque.
E a un uomo, in cui la spiritualità si unisce all'amore per il potere, la Madonna non può che apparire come una Regina, a cui un angelo, con le ali color arcobaleno, porge una corona cesellata d'oro e di pietre preziose. 
Una visione degna di un principe: l'omaggio di un cavaliere alla Signora celeste. 

Per dare verità a questa scena cortese Van Eyck usa tutto il suo talento di pittore, la sua capacità di rappresentare, con la stessa nitidezza, ogni sia pur minimo dettaglio e la sua abilità di raffigurare la preziosità di ogni materiale, dalla morbidezza del velluto, alla levigatezza del marmo, allo sfavillio dell'oro. E  illumina tutto con la brillantezza di quei colori a olio, di cui, si dice, sia l'inventore.  
Fino a ricreare un intero universo,  i cui particolari sono, insieme, annotazioni realistiche e simboli di una religione profondamente vissuta; anzi, una selva di simboli, in cui non è facile districarsi (qui è il link a una bella descrizione).


A partire, ad esempio, dai capitelli, decorati con storie della Genesi o alle tre arcate del loggiato che alludono alla Trinità, per arrivare, usando una lente, ai minuscoli conigli schiacciati dal peso delle colonne che simboleggiano la vittoria sulla lussuria. 
Fuori, nella luce dorata del mattino, il giardino chiuso, l'hortus conclusus, con i suoi fiori legati alla devozione mariana- dalle rose ai gigli- allude alla verginità di Maria. Mentre il pavone sul muro di cinta, ricorda quelli allevati a corte per la bellezza delle loro piume, e, insieme, per la sua carne considerata immarcescibile, rappresenta un simbolo d'eternità.

Anche nel vasto paesaggio, tagliato da un fiume e chiuso, in lontananza, dalle montagne,  si intrecciano verità e simboli: a destra, in corrispondenza con la Madonna, la grande cattedrale prefigura la Gerusalemme celeste, mentre, a sinistra, i campi e le vigne rimandano ai possedimenti del cancelliere. 
Ovunque minuscoli abitanti circolano per le strade, si affollano sulle rive o percorrono il ponte sormontato da una croce. 
Al centro del loggiato, due passanti si fermano davanti al parapetto. 
Uno si china a guardare in basso, mentre l'altro, visto di profilo, indossa lo stesso capperone rosso- un elaborato copricapo a metà tra cappello e turbante- che Van Eyck sfoggia in un  suo autoritratto. 

E chissà che non abbia scelto di raffigurarsi anche qui, mentre sta contemplando il mondo che lui stesso  ha realizzato con la sua pittura. 
Un piccolo universo, un microcosmo di cui fanno parte, alla stessa stregua, il potente cancelliere, i cittadini indaffarati, il fiume e le montagne, così come ogni altro grande o minuscolo dettaglio.
E dove dappertutto gli sembra di ritrovare, illuminato dalla sua luce e dai suoi colori, un uguale riflesso di Dio.


Una trasmissione alla radio francese ripercorre, come meglio non si potrebbe, la storia e il significato del dipinto: il link è qui.

domenica 9 marzo 2014

Il volto di Rembrandt: l'"Autoritratto" del Rijksmuseum di Amsterdam



"...Però all'arte dell'occhio,manca la miglior grazia/ Ritrae quello che vede, ma non conosce il cuore..."
(W.Shakespeare, Sonetto XXIV)



Oggi mi sembra la giornata giusta per una visita al museo e magari- perché no?- al Rijksmuseum di Amsterdam. 
Nessun viaggio, niente bagagli, nessun biglietto da prenotare: basta seguire un link (qui) e siamo già entrati. 
Anzi, se venite con me, vi porto davanti a un quadro, che possiamo guardare da vicino, fin quasi a entraci dentro (qui è il link)



Una tela di piccolo formato (appena 19x22cm), uno spazio ristretto, in cui, dal fondo chiaro e vibrante, emerge in controluce, il volto di un giovane. 
La luce scivola sui suoi capelli scompigliati, sull'orecchio, sul collo, ma lascia indecifrabile lo sguardo: gran parte del viso resta immersa nell'ombra. 

Rembrandt nel suo autoritratto si presenta così.

Siamo nel 1628 e l'artista, quarto dei nove figli di un un agiato mugnaio, ha allora ventidue anni e vive  ancora con la famiglia a Leida. 
La città, seconda solo ad Amsterdam per numero di abitanti, sede universitaria e centro di commerci, ha accresciuto la sua ricchezza dopo l'indipendenza dell'Olanda nel 1609. 
Rembrandt non ha avuto grandi ostacoli quando ha deciso di non seguire l'attività paterna nel mulino che possiedono da anni su un canale appena fuori del centro. 
Anzi, la famiglia l'ha incoraggiato, pensando che fare il pittore possa essere un buon mestiere: i ricchi borghesi e i mercanti più agiati della città fanno a gara nel comprare dipinti per decorare le loro belle case e le possibilità di guadagno sembrano davvero buone. 

Anche se la concorrenza è spietata, è convinto di farcela: è abile, ambizioso e sicuro di sé
Finito il suo apprendistato, ha aperto una bottega in società con un amico giovane e determinato come lui. Nell'ambiente si è già guadagnato una buona reputazione e sono in molti a essere convinti che il figlio del mugnaio è destinato a farsi strada.
Insomma, per lui è un gran bel periodo, tanto più che l'anno prima ha trovato un committente disposto ad aiutarlo e a fargli quasi da protettore. 
È un personaggio importante, Constantijn Huygens, segretario dei principi d'Orange, poeta, musicista per diletto, ma, soprattutto, appassionato d'arte. 
È lui che lo ha convinto a puntare sulla sua capacità di raffigurare le emozioni, o, meglio, "gli affetti" come si diceva allora, una qualità che nel mestiere gli potrà essere molto utile.
Rembrandt non se l'è lasciato dire due volte e ha cominciato a esercitarsi, usando se stesso come modello. 

In questo autoritratto, come in un altro molto simile ora a Monaco e in una serie di acqueforti dello stesso periodo, si mette in posa e prova a rappresentarsi. 
Lo sfondo e l'abbigliamento sono ridotti al minimo: l'autoritratto per lui è essenzialmente uno studio d'espressione, anche se non gli dispiace sfruttare l'occasione per presentarsi al meglio agli occhi del suo illustre protettore 
I capelli scarmigliati possono servire a dare un'idea di immediatezza, i piccoli tocchi di luce a far risaltare il candore del colletto, qualche pennellata di bianco e di rosa a mettere in rilievo la guancia e il lobo dell'orecchio, mentre l'ombra è utile per addolcire i lineamenti e attenuare, sapientemente, la forma del naso. 
Insomma, un po' si mostra davvero e un po' si inventa. E ce lo fa capire.
Attirando e, allo stesso tempo, sfuggendo il nostro sguardo, in qualche modo, ammette che, più che se stesso, quello che intende davvero mostrare è il suo talento di pittore. Quel talento che gli permette, se vuole, di cambiare, con qualche pennellata, la fisionomia e l'espressione del suo volto dipinto e di farlo passare dalla malinconia alla gioia, dalla calma alla collera.
Ancora non si vuole scoprire di più. Lo farà più tardi nella lunga serie di autoritratti che dipingerà per quasi quarant'anni: più di novanta a formare una sorta di diario dipinto, in cui registrerà le gioie e, soprattutto, i dolori di un'intera esistenza.

Quello che, invece, ci consegna qui è il volto di un giovane, non toccato dai segni della vita. Un giovane che non conosce ancora il suo futuro, ma che è convinto di voler continuare a dipingere. Con il suo chiaroscuro accentuato, le sue pennellate energiche che alterna ai tratti delicati, la sua stesura spessa del colore o le velature sottili, le sue tinte scure, insomma con tutta l'originalità di uno stile che è già diventato il suo.  
Ma quello che ha dentro, i suoi pensieri più profondi rimangono per ora avvolti nel mistero dell'ombra che gli nasconde lo sguardo. 




Per saperne di più sulla vita e l'arte di Remabrandt uno dei libri più belli è S.Schama, Gli occhi di Rembrandt, ed. Mondadori Storia 2000, trad. it. P. Mazzarella-L.Vanni-D.Aragno

mercoledì 5 marzo 2014

Tiepolo a Villa Valmarana: il Sacrificio di Ifigenia




"Oggi ho visitato la Villa Valmarana, decorata da Tiepolo, che lasciò libero corso alle sue virtù e alle sue manchevolezze..." (Goethe, Diario del viaggio in Italia, 24 settembre 1786)



Ha una sessantina d'anni Giambattista Tiepolo, quando, intorno al 1757, viene incaricato della decorazione della villa di campagna della nobile famiglia Valmarana nei dintorni di Vicenza. 
Come al solito, si è messo subito al lavoro. 
Malgrado l'età, non si sente diverso da quel vivace Tiepoletto- così l'avevano soprannominato- che, anni prima, aveva dichiarato, in un dipinto, tutto il suo amore per la giovane moglie (ne ho parlato qui). 
Ora è diventato famoso e, se non ricco, è almeno benestante, la famiglia si è fatta numerosa e due figli, Giandomenico e Lorenzo, lavorano stabilmente con lui. 
Ma quel mare di  idee che gli affollavano la mente ancora non si è placato. 

Quando arriva a Vicenza, è tornato da poco da Würzburg, dove ha ricoperto di affreschi le centinaia di metri quadri della Sala imperiale e dello scalone della Residenza di un Principe-Vescovo dal nome per lui impronunciabile, dando fondo a tutta la sua fantasia (ne no parlato qui). 
Ma ora, nella cornice più intima della bella villa alle pendici del monte Berico, non c'è posto per i suoi scorci vertiginosi di cieli.  
Le stanze sono quelle, molto più raccolte, di una villa di campagna, in cui la famiglia passa le sue vacanze: i suoi affreschi, dipinti ad altezza d'uomo, entreranno quasi a far parte della loro vita quotidiana.  
Come quelli cinquecenteschi di Paolo Veronese.
Il committente, Giustino Valmarana, uomo di lettere e appassionato di teatro, ha scelto lui stesso i soggetti: al pianterreno le scene d'amore, tratte dai poemi più noti, una per ogni sala, ben si confanno al gusto di una nobiltà di provincia, che sa vivere il lusso con garbo e misura. 

Proprio all'ingresso della villa, invece, nella sala principale, ha previsto la scena col "Sacrificio di Ifigenia". 
Sono in molti, all'epoca, a conoscere quell'antico mito, in cui si mescolano Dei ed eroi, sentimenti forti, commozione e sgomento. 
Per chi non lo sapesse, poi, c'è sempre chi è disposto a raccontarlo. 
"...Tutto  comincia, quando Agamennone uccide, per errore una cerva sacra alla dea Diana. La dea, adirata, provoca una lunga bonaccia che per tre lunghi mesi impedisce alle navi di Agamennone e a tutta la flotta greca di partire per la guerra di Troia. L’indovino Calcante comunica che l’ira della dea sarà placata, solo se Agamennone accetterà di sacrificare la sua figlia più bella, Ifigenia. Agamennone, pur combattuto tra senso del dovere e amore paterno, decide di mandare a chiamare con l'inganno la moglie Clitemnestra e la figlia, facendo credere che Ifigenia andrà in sposa ad Achille. Non appena la giovane arriva in Aulide, tutti i condottieri greci si trovano d'accordo: Ifigenia deve essere sacrificata alla dea..."

Cosa? Un dramma proprio sulla parete d'ingresso?- si sarà detto qualcuno. 
Niente affatto: la scena è destinata più a emozionare che a turbare.
Perché in fondo ci sarà un lieto fine.



Il fedele scenografo dei suoi dipinti, il "quadraturista" Girolamo Mengozzi Colonna (1688-1772), ha aiutato la pittura di Tiepolo a "sfondare" il muro, creando uno spazio illusorio. 
Sei bianche colonne ioniche, delimitando  la scena, fungono da quinte teatrali e, insieme, quasi sostenessero il soffitto, suggeriscono una prosecuzione della stanza al di là della parete.
La sala della villa è diventata il palcoscenico perfetto per la sua rappresentazione. 

Al centro, sullo sfondo di un cielo azzurro terso, il sacerdote Calcante, attorniato da comparse abbigliate in stravaganti vesti orientali, sta per uccidere con un coltello la giovane Ifigenia. La brocca con l'acqua rituale e il rogo sono pronti e un servo si avanza per raccogliere in un vassoio il sangue della vittima. 
Alla folla, sulla destra, si è mescolato  un personaggio, vestito alla moda settecentesca e con una corta barba, forse il committente degli affreschi, Giustino Valmarana, che sembra entrato in scena senza nemmeno cambiarsi. Qualcuno, invece, si è nascosto dietro una colonna, da cui fa emerge solo un braccio. 
In disparte, Agamennone, chiuso nel suo dolore, si cela il volto con un ampio manto rosso, in un gesto da consumato attore tragico. 

È l'unico non si è accorto di quello che sta per succedere; tutti gli altri  guardano già verso l'alto. 
Tiepolo, da gran regista qual è, ha scelto il momento di maggiore pathos per introdurre, quasi partisse realmente dalla stanza, una vaporosa nuvola rosata. Sopra la nube due amorini conducono la cerbiatta, che, per volere della dea Diana, verrà immolata al posto di Ifigenia. 

Ecco lo scioglimento, ecco quel lieto fine che tutti attendevano.
La patetica e discinta Ifigenia ormai è salva, mentre la brezza, che consentirà alle navi di partire, agita i grandi stendardi rossi sullo sfondo. 
Nell'affresco-teatro, eroi e divinità hanno recitato la loro parte, come attori o, meglio, come cantanti di un melodramma. 

In quella parete di tre metri per sette, si sono mescolate realtà e illusione. 
Grazie a una pittura lieve fatta di tinte chiare, azzurre, ocra, rosate, di ombre colorate e di leggeri chiaroscuri, con il colore freddo del cielo che esalta, per contrasto, quello più caldo delle vesti. Fino a dare l'idea della luce di un eterno mattino.
La finzione di un mondo, che sarà, entro breve, destinato a infrangersi. 

Tiepolo comincia a essere consapevole di camminare su una cresta sottile e che il suo gioco di illusioni non potrà durare a lungo. Tanto che sarà lui stesso, nella foresteria di villa Valmarana, a lasciare il posto alla pittura del figlio Giandomenico (qui), conscio che le sue costruzioni illusorie, i suoi artifici e le morbidezze della sua pittura sono ormai fuori posto. 
La realtà avanza ed è una brutta realtà.
Venezia sta cedendo il suo ruolo di prima potenza commerciale con l'Oriente. Come l'Italia tutta, anche dal punto di vista artistico, ha perso ogni primato e altri centri, dalla Francia all'Inghilterra, si stanno sempre più affermando. 
I suoi vaporosi teatrini rococò sono destinati a cedere il posto a una pittura più attenta al reale. 

Tiepolo continuerà a lavorare tra Venezia e l'entroterra ma partirà nel 1762 per la Spagna dove morirà, otto anni dopo, di malattia- e forse di nostalgia-  dopo avere intessuto per l'ultima volta, per la retriva monarchia spagnola, le reti dorate delle sue illusioni.





Per informazioni su orari di visita e attività di Villa Valmarana il link è qui.

sabato 1 marzo 2014

Il calendario di pietra: marzo



"...de presso piglia la tuba ser Marzo pregonatore/ e corre de qua e là, fazando gran rumore"
(Bonvesin de la Riva, Tractato dei Mesi, fine sec.XIII) 


Una giornata variabile, un cielo che passa dal grigio all'azzurro e che cambia continuamente. 
Ecco quello che ci si immagina, quando si pensa a Marzo, il mese "pazzerello" per eccellenza, in cui si incontrano (e si scontrano) la buona e la cattiva stagione.
"San Benedetto (il 21 del mese), la rondine sotto il tetto", oppure "A marzo, chi non ha scarpe vada scalzo", sono i proverbi che salutano, con l'equinozio di primavera, il ritorno del bel tempo.
Marzo è davvero speciale.
Prende il nome da Marte, dio della guerra, ma anche protettore  del risveglio primaverile e del rinnovamento.
Prima del calendario gregoriano, era il 25 marzo, il giorno dell'Incarnazione e dell'annuncio a Maria- nove mesi giusti prima di Natale- a segnare, in gran parte d'Italia, l'inizio del nuovo anno

Ma Marzo è anche- e soprattutto- il più volubile dei mesi. 
La pioggerellina, descritta nella poesia imparata a memoria da tanti di noi alle elementari (qui è il link), si può alternare, nella stessa giornata, al sole più radioso: il tempo è imprevedibile.
Tanto che anche nei Calendari di pietra di otto secoli fa, che ho cominciato a "sfogliare" a partire da gennaio (qui), quello del Duomo di Ferrara (ora al Museo della Cattedrale) e quello della Pieve di Arezzo, Marzo è legato ai mutevoli capricci del vento.

A Ferrara, dove Marzo condivide la formella col mese di Aprile, sembra che sia il vento rude degli ultimi giorni d'inverno a soffiare impetuoso e a scompigliare la barba e i capelli di un uomo irsuto, vestito di una corta tunica e in atto di suonare un corno.

Più calmo, invece, il vento che, ad Arezzo, arriva a sollevare i capelli ispidi e chiari di un Marzo ancora freddoloso, abbigliato con scarpe robuste, una lunga veste color ocra fermata alla vita da una cintura e un mantello raccolto sul braccio destro. E anche lui sta per soffiare nel corno che ha appena portato alla bocca.


Non compare  stavolta nessuna delle attività agricole tipiche della stagione, a cui ci eravamo finora abituati. 
Quello che viene raffigurato è il "Marcius cornator", o, per dirla in italiano, "Marzo che suona il corno". 
Un soggetto che ha dietro di sé una lunga storia.
Forse solo pochi degli anonimi scultori degli inizi del Duecento, che, passando da un cantiere all'altro, lavorano ai Calendari dei Mesi come quelli di Ferrara e di Arezzo, hanno avuto la possibilità di vedere l'immagine di quello stesso scapigliato suonatore nei mosaici dei pavimenti di antichi palazzi o nei fogli miniati di qualche manoscritto. 
E, probabilmente, sono ancora meno quelli che sanno che la figura, rappresentata nei mosaici e nelle miniature, così come il Marzo, che intagliano con tanta fatica nella pietra, si rifanno all'iconografia di Eolo, il mitologico dio dei venti. 
Proprio Eolo che, con i capelli in disordine e le guance gonfie, estrae, soffiando dalla sua otre le tiepide brezze o la fredda tramontana.

A mala pena qualcuno di loro sa leggere e scrivere e ben pochi conoscono testi letterari o mitologici. Ma sono proprio quegli scultori itineranti, dai capomastri ai più modesti scalpellini, che fanno in modo che il filo con il passato non si spezzi mai del tutto, trasmettendo di padre in figlio o da maestro ad apprendista, quel motivo tratto da un'antichità che ha il sapore di una favola lontana. 
Fino a trasformare il dio del mito in un robusto e scarmigliato contadino, capace di sollevare, suonando nel corno, quei venti di Marzo che sgombrano le nuvole dell'inverno e preparano il cielo all'arrivo della primavera. 
E a infondere in quell'antica rappresentazione una nuova verità.





Per approfondire la storia dell'immagine del "Marcius cornator”, il link è qui.