giovedì 26 giugno 2014

Il busto di Nefertiti a Berlino: la "bellezza del Nilo"




Non potevo certo passare qualche giorno di vacanza  a Berlino senza parlare di lei, "la donna più bella della città", come la definiscono i più entusiasti: Nefertiti.


Una piccola scultura in pietra calcarea ricoperta di gesso policromo, alta una cinquantina di centimetri e ora conservata al Neues Museum.
Una donna bellissima, con il collo lungo lievemente inclinato in avanti quasi a sostenere meglio il peso della corona, il naso sottile, gli zigomi alti, le labbra carnose che accennano appena a un sorriso. 
Di un fascino così ammaliante da far dimenticare che uno dei due occhi è vuoto. Solo il destro è completo, con l’iride tagliata in un minuscolo pezzo di cristallo di rocca- su cui è stata incisa e poi dipinta in nero la pupilla- inserito in uno strato di cera trasparente.


Malgrado l'assenza di ogni iscrizione, non ci sono dubbi che l'affascinante "regina policroma" sia Nefertiti (1390-1352 a.C.), "la bella che qui è giunta" stando al significato del suo nome, la moglie del faraone Akhenaton, celebre per avere imposto il monoteismo e il culto esclusivo di Aton, il dio del sole
"Signora della felicità, dal viso luminoso": la descrive un’iscrizione funeraria. E meglio non si potrebbe definire la dignità e la grazia di questo busto.
"Ogni descrizione è inutile, bisogna vederla":- scrive l’archeologo tedesco Ludwig Borchard dopo aver scoperto  la scultura- il 6 dicembre 1912- durante gli scavi finanziati dal mecenate James Simon, amico personale dell’imperatore prussiano Guglielmo II. 
Il sito era quello di  Tell El Amarna, al nord di Tebe, proprio là  dove, per un breve periodo, Akhenaton aveva spostato la capitale del regno. 

Chissà che sorpresa, quando fu ritrovata tra una serie di pezzi  provenienti da quello che fu identificato come il laboratorio dello scultore "Thutmosis", responsabile dei monumenti reali. 
Un busto come questo, era particolarmente raro nell'arte egizia: secondo gli studiosi poteva servire come modello per i collaboratori meno esperti per eseguire la testa  delle sculture dedicate alla Regina, mentre i corpi, probabilmente, erano completati altrove. E sarebbe stato lasciato incompiuto dallo scultore, quando partì precipitosamente per Tebe.

Il busto fu portato a Berlino insieme agli altri, provenienti dallo scavo, mentre la metà dei reperti- secondo gli accordi- veniva lasciata in Egitto. 
Rimase, poi, una decina d'anni nella dimora berlinese  di James Simon, cui spettava la proprietà di molti degli oggetti recuperati, finché, nel 1924, non fu donato al museo ed esposto per la prima volta al pubblico. 
E da allora fu un innamoramento collettivo.
Cartoline, copie, riproduzioni, ma anche citazioni sui giornali, nei cataloghi, studi nelle riviste specializzate: fiumi d’inchiostro versati per descrivere quella bellezza, allo stesso tempo, antica e moderna.

Moderna, appunto! Anche troppo per lo studioso svizzero Henri Stierlin,  che in un libro del 2009, sostiene che il busto sia in realtà un falso. 
Macché regina di 3.400 anni fa!  Macché  moglie di Akhenaton! 
Il busto altro non sarebbe che una scultura "art déco" fatta eseguire, utilizzando pigmenti antichi, dallo scultore Gerhard Marcks (1889-1981). 
Borchardt avrebbe commissionato lui stesso il  busto-ritratto per avere un'idea dell'aspetto di Nefertiti che "fino ad allora, si poteva vedere solo di profilo così com'era raffigurata nei bassorilievi". 
Una volta esposta, la statua sarebbe stata definita originale "per condiscendenza nei confronti di un principe tedesco che, al suo cospetto, avrebbe manifestato un ammirato stupore". 

L'archeologo, scrive lo studioso svizzero, «non avrebbe avuto il coraggio" di ammettere che era un falso per non deludere un ammiratore di quel calibro. 
Descrizioni di scavo lacunose, se non inesistenti, l'assenza per più di un decennio dalle collezioni pubbliche e, poi, l'idea stessa del busto, con le spalle tagliate in verticale, del tutto inusuale  nell'arte del tempo. 
Senza contare quel profilo troppo moderno, di un'eleganza tipica dell'"art déco". 
Tutto, secondo Stierlin, deporrebbe a favore di un falso.

Niente affatto! Sono insorti gli archeologi e gli studiosi del museo: tutte le analisi fatte finora confermano l'autenticità. 
E, per di più, lo scultore Gerhard Marcks, di cui parla Stierlin, non sarebbe nemmeno andato in  Egitto. 
Il nome Marcks, che compare tra gli addetti agli scavi, sarebbe, in realtà, quello del fratello dell'artista del tutto digiuno di scultura e incapace di una simile creazione.
Insomma, gli animi si infiammano, la discussione si fa serrata, gli articoli si moltiplicano.

Nel frattempo, Nefertiti, la "bellezza del Nilo", vera o falsa che sia, rimane imperturbabile, mentre il suo sorriso sembra farsi sempre più enigmatico.
Che volete? Le polemiche, la curiosità, l'interesse della gente non fanno che aumentare il suo fascino. 
Vecchia di tremila anni o  di un secolo, cosa importa? 
A una bella donna, come si sa, non si deve mai chiedere l'età.






Per il libro di Henri Stierlin qui è il link


venerdì 20 giugno 2014

Il "Cenacolo" di Leonardo da Vinci: il posto di Giuda



Il “Cenacolo” di Leonardo da Vinci per il refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano, non ha certo bisogno di presentazioni. 


Qualche amante della statistica ha calcolato che, insieme al polittico dell'"Agnello mistico" di Jan van Eyck (ne ho parlato qui), sia l'opera d'arte, su cui è stato scritto di più. Comprese le rutilanti fantasie di Dan Brown e del suo "Codice da Vinci".
Un grande- in ogni senso- dipinto (4,60 metri x 8,80), che, danneggiato fin dall'inizio a causa della tecnica usata da Leonardo, appare oggi, malgrado tutti i restauri, come uno straordinario, quanto degradato, fantasma.
Un dipinto complesso da tutti i punti di vista, dallo stile, all'iconografia.
Impossibile affrontarlo di petto: come succede per tutti i capolavori, è più facile analizzarlo dettaglio per dettaglio. 
E, magari, dopo la prima emozione, concentrarsi su un solo particolare. Oppure su un solo personaggio: Giuda, per esempio.

Negli anni tra 1494 e '98, in cui Leonardo lavora all'affresco, le regole della rappresentazione dell'Ultima Cena sono pressoché stabilite: Giuda, generalmente, è raffigurato senza aureola e dalla parte opposta del tavolo rispetto agli altri apostoli.
Nel Cenacolo di Leonardo, invece, no: nessun apostolo ha l'aureola e Giuda siede in mezzo a loro. Nessuna separazione, nessuna esclusione.
Il posto di Giuda non è, certo, un dettaglio da poco. 
Nella scelta di questa iconografia, molto meno corrente, probabilmente, Leonardo è stato influenzato dai colloqui col priore del convento, il domenicano Vincenzo Bandello, sui temi della Grazia e della salvezza che, in quegli anni, erano al centro delle discussioni teologiche e agitavano non poco le coscienze. 
La dottrina domenicana, sulla base degli scritti di Tommaso d'Aquino, si opponeva all'idea della predestinazione, invocando, anche per Giuda, la possibilità della libera scelta.

Un concetto importante che Leonardo realizza con una grande idea.
Nel suo affresco sceglie, infatti, di non rappresentare l'istituzione dell'Eucarestia, come generalmente si usava.
Preferisce, invece, raffigurare un altro momento della Cena: quello immediatamente successivo, alle parole con cui- stando al testo di Giovanni (13,21)- Gesù afferma: "In verità, vi dico che uno di voi mi tradirà".
Parole che pesano come pietre.
Dopo questa drammatica rivelazione, una tempesta di emozioni sconvolge tutti. 
Disposti in gruppi di tre, alla destra e alla sinistra di Cristo, gli Apostoli, sono sommersi da un'ondata di sentimenti che Leonardo rivela, attraverso i loro gesti. 
È la rappresentazione di quei "moti dell'anima", di cui ha parlato nel suo "Trattato della pittura", di cui ha riferito nei suoi taccuini e per cui ha fatto una serie di disegni preparatori. 

All'epoca, quando la sala non era ancora un museo, ma il refettorio del convento, lo spazio fittizio dell'affresco doveva apparire come un prolungamento di quello reale: la tovaglia, le stoviglie, i cibi frugali sulla tavola dipinta erano gli stessi usati alla mensa dei frati.
Nel silenzio, rispettato da tutti e interrotto solo da qualche lettura religiosa, l'impressione di chi guardava l'affresco era quella di assistere a una "rappresentazione sacra". Un "teatro gestuale", dove ogni volto, ogni gesto rispecchiava tutta la gamma delle emozioni provate dagli spettatori.

E dove ogni atteggiamento sembra identificare un carattere, tanto che ogni Apostolo è indagato nella sua psicologia, così come era descritta nei testi agiografici del tempo.
E ognuno di loro reagisce alla rivelazione di Gesù in modo diverso.
C'è chi si meraviglia, chi si angoscia, chi è sconcertato, chi rimane incredulo, chi porta le mani al petto quasi a discolparsi.
Le braccia si sovrappongono in un gesticolare turbinoso, più convulso verso il centro della tavola, più pacato all'esterno mano mano che gli apostoli percepiscono, fino in fondo, il senso delle parole.

In quella tavola affollata, solo due figure rimangono immobili.
Cristo, al centro prospettico della composizione, anche lui senza aureola, ma illuminato dal chiarore della finestra contro cui si staglia, siede, con le mani abbandonate, in una posizione che richiama quella della Pietà.
In mezzo a tutta quella concitazione, è come se fosse solo, concentrato sul dolore e sulla sofferenza che lo aspetta.
L'altro che rimane fermo e quasi bloccato, nel gruppo animato degli Apostoli, è Giuda.
Cristo e Giuda sono gli unici che sanno. E la loro consapevolezza li isola da tutti.


Giuda è seduto tra Pietro e Giovanni, completamente assorti  in una conversazione che lo esclude. I due rivelano, l'uno nella sua quieta mitezza, l'altro nel suo desiderio di azione, la differenza della loro indole. 
Pietro sta per chiedere, tramite Giovanni, quella spiegazione che tutti aspettano e, con un gesto maldestro, nasconde il coltello, con cui, poco dopo, ferirà il servo del grande sacerdote.
Guida, invece, col gomito poggiato sulla tavola, cerca di coprire, con la mano destra, la borsa dei denari.
E, al contrario degli altri due, rimane in silenzio.
La luce, che si concentra su Cristo, lo lascia- rispetto agli altri- completamente in ombra.

Gesù non ha ancora rivelato, intingendo  il pane, il suo tradimento.
Ancora per pochi istanti, Giuda potrebbe essere  libero di scegliere. 
Ed è proprio questo il momento che Leonardo ha fissato nella sua pittura e che consegna alla nostra riflessione. Dopo sarà troppo tardi

Non appena Gesù rivelerà il suo nome, Giuda abbandonerà il suo posto e consumerà fino in fondo il tradimento. La sua sorte sarà compiuta.
Per lui l'atto finale della Cena è nelle parole del Vangelo di Giovanni (13,30) "preso il boccone, subito uscì. Ed era notte". 




Più che un testo specifico dei tanti che sono stati scritti sull'iconografia del Cenacolo, mi viene alla mente il bellissimo racconto di J.L. Borges, in "Finzioni", sulle "Tre versioni di Giuda", riportato integralmente qui 



sabato 14 giugno 2014

Robert Campin, "Ritratto di donna": il signore dell'anello



Un ritratto di donna, conservato alla National Gallery di Londra (qui è un link) 


Apparentemente, niente di meno misterioso dell'immagine di questa giovane col viso incorniciato dal tessuto rigido, bianco e pulitissimo, del soggolo- il pesante velo che copre la testa e il collo, indossato, all'epoca, dalle donne sposate- talmente fresco di bucato e ben inamidato da rivelare i segni di una recente stiratura. 
L'espressione del volto, con le guance tonde e piene, è quella di una ragazza timida: gli occhi sfuggono ogni contatto, l'atteggiamento è serio e compito, con le mani compostamente raccolte in grembo. 
Nessuna ostentazione di uno status sociale elevato tanto che soltanto la veste foderata di pelliccia e l'anello d'oro al dito ne rivelano la ricchezza.

Il dipinto, datato intorno al 1435, è attribuito a Robert Campin (1378/79-1444), insieme a Jan van Eyck, caposcuola riconosciuto della pittura fiamminga e con una fiorente bottega a Tournai, uno dei centri commerciali più importanti del Ducato di Borgogna (per l'attività dell'artista e la sua identificazione col Maestro di Flémalle qui è il link)

La novità della tecnica (olio su tela) e della posa (di tre quarti, anziché di profilo), con il volto che incombe in primo piano e la luce che evidenzia ogni mimino dettaglio, ne fanno, a pieno titolo, uno dei primi ritratti della pittura moderna.
L'identità della giovane, però, rimane ignota.
L'assenza di qualsiasi stemma che ne attesti l'appartenenza a una famiglia aristocratica,  di qualche gesto rivelatore o di un simbolo esplicito lo potrebbero far annoverare tra quei ritratti "silenziosi, infinitamente vicini e, allo stesso tempo, infinitamente lontani" di cui parla  il  grande storico dell'arte Erwin Panofsky.

Ma ecco che un dettaglio illumina di una luce diversa quella giovane dall'apparenza così linda e modesta. 
Se guardiamo bene l'immagine ingrandita del rubino, incastonato nell'anello d'oro che porta alla mano destra, possiamo scorgere una figura. 


E non solo pochi tratti confusi nei riflessi della pietra preziosa, ma un vero e proprio ritratto di un uomo, con tanto di barba, baffi e capelli lunghi. Un'apparizione sorprendente, non c'è che dire. 
Ma chi sarà mai quello strano personaggio? 
Che sia il marito, proprio non  si direbbe. 
Il suo ritratto, che fa pendant con quello della donna, che ha le stesse dimensioni (circa 40x30xm) e un simile motivo a finto marmo dipinto sul retro tanto da far pensare agli sportelli di un dittico, rivela la fisionomia ben diversa di un uomo completamente sbarbato, come dettava la moda del tempo. 


I segni e le rughe sul volto fanno supporre di un'età più avanzata rispetto a quella della moglie. 
Indossa, con fierezza, un capperone, il copricapo  a metà tra turbante e cappello che faceva furore tra  i ricchi del tempo, di un rosso tanto vivace da non passare inosservato
La veste foderata di pelliccia, è, invece, di quel nero brillante, imposto dalla corte di Borgogna come colore di moda. 
Anche qui, nessun elemento che lo faccia individuare con precisione: l'aria è quella di un agiato borghese, attento alla propria immagine e pronto ad adeguare il suo abbigliamento a quello in uso dall'aristocrazia.
L'espressione è talmente  seria e pensosa, che si stenta a credere sia capace di farsi raffigurare, scapigliato e fornito di barba e baffi, in un anello, sia pure al dito della legittima consorte.
Eppure, il rubino, simbolo d'amore ardente, sarebbe la pietra più adatta a un pegno amoroso.

Lo studioso, che, qualche anno fa, dotato di lente d'ingrandimento- si suppone- di prim'ordine, ha scoperto l'immagine, ha ipotizzato che si trattasse di un autoritratto del pittore. E come "il più piccolo autoritratto del mondo"ha avuto il suo quarto d'ora di celebrità nei titoli dei giornali (qui è un link).
Ma perché mai Robert Campin si sarebbe effigiato in quell'anello?
Certo, il carattere del pittore, così come lo  possiamo ricostruire dai documenti, non doveva essere ordinario. Si può intuire, invece, un uomo dalla personalità battagliera, che partecipa da protagonista alla rivolta della città di Tournai contro l'autorità borgognona, fino a essere condannato a una pena pecuniaria e a calmare i bollenti spiriti con un pellegrinaggio al santuario più vicino.
E, poi, se vogliamo tuffarci nel pettegolezzo più spinto, possiamo supporre che non fosse nemmeno insensibile al fascino femminile, tanto che proprio al tempo del ritratto, era stato bandito dalla città per il reato di adulterio e solo grazie all'intervento della duchessa Maria di Borgogna, la pena era stata commutata in una multa. 

Possibile, allora, che la piccola immagine, quasi invisibile a occhio nudo, nasconda una dichiarazione d’amore per la giovane sposa? 
Forse è azzardato pensare a un simile omaggio offerto proprio sotto gli occhi sospettosi del marito E rimane da capire  perché, in un momento, in cui la moda imponeva di rasarsi- e gli artisti non facevano eccezione- si sia raffigurato con baffi e barba fluente.
Oppure, suggestionati dal cangiante riflesso rosso del rubino, possiamo spingerci oltre ed evocare fiamme diverse da quelle dell'amore. 
Fino a intravedere nell'anello, addirittura la figura di un demone, messo lì come una tentazione o una sfida alla virtù, anche troppo ostentata, della giovane.

Può darsi, invece, che non sia in gioco alcun sentimento, né tanto meno si tratti di sfide infernali o di amori adulterini, ma  che, al pari di Petrus Christus e della sua mosca dipinta, qualche anno dopo, nel "Ritratto di Certosino" (qui è il link), Robert Campin abbia voluto offrire, col minuscolo ritratto, solo una dimostrazione della sua abilità di pittore.

Oppure....chissà...le ipotesi potrebbero essere tante, ma tutte arbitrarie.
L'enigma dell'anello rimane aperto e forse è giusto lasciare ai capolavori la loro parte di mistero.
La donna del ritratto, protetta dai suoi candidi veli, può, così, continuare a sfuggire il nostro sguardo, senza svelare fino in fondo i suoi segreti.




sabato 7 giugno 2014

La "ballata per violoncello" di Robert Doisneau




Un uomo, un violoncello e un grande fotografo: Robert Doisneau (1912-1994)


A Parigi la pioggia cade fitta, ma l'uomo con l'impermeabile bianco non cerca nemmeno di coprirsi con l’ombrello. Anzi, preferisce bagnarsi pur di riparare il violoncello che ha portato con sé. 
Un’immagine famosa, riprodotta migliaia di volte. 
Un'immagine che ha dietro una storia, ma, stavolta, nessuna rivendicazione, nessun processo come quello intentato a Doisneau dai due "falsi" innamorati che pretendevano di essere i protagonisti del celeberrimo "Bacio di fronte all’Hotel de Ville", di cui ho parlato qui.
L'uomo ritratto nella foto, Maurice Baquet, a querelare Doisneau e a richiedere un congruo risarcimento non ci pensa nemmeno: i due sono amici da lunga data, condividono lo stesso senso dell’umorismo e  lo stesso sguardo ironico sulla vita.  
Quando si incontrano, nella Parigi degli anni '40, frequentano gli stessi ambienti, hanno in comune l’amicizia con Jacques Prévert e- in tempi in cui i messaggi e i telefonini sono ancora lontani- intrattengono una fitta corrispondenza epistolare. 
Baquet, all'epoca, non è uno sconosciuto: è un attore di teatro e di cinema, uno sciatore provetto, membro della squadra nazionale francese, e soprattutto, è un violoncellista appassionato che vanta la vittoria del primo premio al Conservatorio di Parigi. Anche se non è riuscito, come avrebbe voluto, a entrare in un’orchestra, la passione per la musica e per il violoncello non lo hanno mai abbandonato.

Di tutti i personaggi delle sue foto  è quello, con cui Doisneau intrattiene il rapporto più allegro:  per  il suo  un carattere  di una serenità inalterabile lo ha, addirittura, soprannominato, il "mio professore di felicità". 
Senza dubbio si è dimostrato, fin dall'inizio, il complice ideale per mettere in scena una serie di ritratti fotografici, di cui sarà protagonista, o per meglio dire, comprimario. 
La parte principale spetterà al violoncello, grazie a cui Baquet sarà trascinato nelle situazioni più improbabili e negli ambienti più vari, dalla città, alla campagna, dalle piste da sci, alla sala di un teatro. 
Sempre insieme, lui e il violoncello.
Più di cinquanta foto che coprono un arco di tempo lungo trent’anni, a partire dagli anni ’50 fino al 1981, quando  saranno pubblicate in un delizioso libro intitolato, appunto, "Ballade pour violoncelle et chambre noire / Ballata per violoncello e camera oscura".
Partito come un gioco tra amici, si è trasformato, grazie al tocco di Doisneau, in uno di quei "teatrini"che ama tanto. Le foto, viste una di seguito all'altra si presentano come una serie di "messe in scena" in grado di rivelare, conditi con un pizzico di umorismo, gli aspetti più insoliti e stupefacenti della vita.

Ed ecco, ad esempio, come il violoncello possa dimostrare un insospettabile lato sportivo, aspettando  Baquet sulla vetta della montagna


Oppure rientri nel suo ruolo, quando tutt'e due, arrivati proprio sulla cima, improvvisano un concertino con tanto di spartito e leggio, e Baquet apparentemente incurante può sedersi sull'orlo del precipizio


Piazzato sulla schiena come un incongruo zainetto, il violoncello può essere trasportato sulle più impervie piste da sci.


Oppure galleggiare magicamente sull'acqua mentre Baquet, completamente immerso, lo guarda tra stupito e divertito


Immagini di un umorismo tenero e gentile, situazioni sempre diverse, che Doisneau orchestra- è proprio il caso di dirlo- da par suo. 
Piccole storie che vorrebbe "lievi come un battito di ciglia", ma capaci- come poche altre- di regalarci momenti sospesi tra leggerezza e poesia. 




Magari, prendendosi il tempo di ascoltare Maurice Baquet suonare, stavolta davvero, il suo violoncello (qui è il link) 

domenica 1 giugno 2014

Il calendario di pietra: giugno




"Dixe Zugno: io sego lo grano, de le cerexi (ciliegie) i'me empo le mano/sego lo fieno de suxo a lo piano e coglio l'agresto (le erbe selvatiche) per farne sauore (condimento)" (Ballata dei mesi, sec.XIV).

Grano, ciliegi, fieno, erbe odorose: nella ballata dei mesi, Giugno si vanta, a buon diritto, di essere il periodo dell'anno in cui la terra si mostra più fertile e feconda. Anche il nome latino, "Iunius", ne riflette la pienezza e l'abbondanza, sia che tragga origine, come qualcuno afferma, da "juniores", i giovani, e simboleggi la forza della giovinezza, sia che, invece, derivi, come sostiene la maggior parte degli studiosi, da Juno, Giunone, la dea sposa di Giove, protettrice dei matrimoni, delle nascite e della prosperità. 
Giugno è il mese del trionfo della luce, del solstizio d'estate e delle giornate più lunghe dell'anno. Il sole, però, non è abbastanza caldo da bruciare e consente ancora di poter falciare l'erba dei campi; le messi sono arrivate a maturazione e la frutta è pronta per essere colta.
Un mese intenso, dunque, per i lavori agricoli raffigurati nei Calendari scolpiti degli inizi del XIII secolo.

Nelle formelle dei Mesi di Ferrara, oggi conservate nel museo della Cattedrale, Giugno è un ragazzo che, con i piedi nudi e la corta tunica rialzata, fermata con un nodo alla vita, si sta arrampicando su un albero (forse un pero) carico di foglie e, soprattutto, di frutti. 


Ha già raggiunto il ramo, più basso e tra un po'assaporerà la dolcezza di un frutto. Una vera squisitezza in un'epoca, in cui la frutta veniva prodotta solo per essere servita alla tavola dei nobili e i contadini si dovevano accontentare di coglierla dai rari alberi che crescevano spontaneamente vicino ai loro orti.
In tutta la formella si respira un'aria di grande vitalità e c'è una precisa attenzione alla realtà, dal gesto del giovane, al particolare della tunica annodata in vita e rialzata in modo da non intralciare il movimento, all'intreccio ombroso dei rami dell'albero. 
Accanto- ed è la prima volta che compare nel ciclo di Ferrara- spicca la presenza del grande granchio che simboleggia il Cancro, segno zodiacale del mese. 

Ad Arezzo l'ignoto scultore del ciclo dei Mesi della pieve di santa Maria Assunta, stavolta non segue, come di consueto, l'iconografia dei Mesi di Ferrara. Sceglie, invece, di raffigurare, in un modo più aderente alla tradizione, la  attività agricola tipica di giugno: il taglio del grano.


"Giugno, la falce in pugno": dice il detto popolare che rispecchia la tradizione. 
Anche qui,  in un campo di spighe gialle che sembrano invadere tutto spazio della rappresentazione, è all'opera un giovane mietitore, a piedi nudi e con una corta tunica fermata alla vita da una cintura. 
Purtroppo i molti secoli passati non hanno risparmiato la scultura, tanto che nel corso del tempo sono andate perse le mani che, sicuramente, impugnavano la falce nei gesti tradizionali della mietitura, tramandati fin dall'antichità: afferrare, con la mano sinistra, un manciata di spighe e tagliarle, con la falce impugnata nella destra, a mezza altezza, in modo da lasciare sul campo le stoppie per alimentare il bestiame che vi avrebbe pascolato. 
La scena occupa uno spazio maggiore delle altre, quasi a sottolinearne l'importanza: per tutti il grano e il pane rappresentavano l'alimento per eccellenza. E qui le spighe, alte e fitte, fanno sperare che il raccolto sarà abbondante.

La frutta, il grano e il pane che verrà: nel ciclo delle stagioni, Giugno è il periodo più fecondo dell'anno, in cui godere dei prodotti della terra e scordare, al calore del sole, le paure e il freddo dell'inverno.