venerdì 25 luglio 2014

"La quercia di Flagey" di Gustave Courbet: una storia a lieto fine




Fa piacere, in questo momento così difficile per il patrimonio storico e artistico italiano, sottoposto ad attacchi da tutte le parti, leggere una storia che va a finire bene. Peccato, però, che si svolga in Francia. 
Protagonista è un bellissimo dipinto di Gustave Courbet (1819-1877), "La quercia di Flagey", una tela di 89x110 cm, ora al Museo Courbet d'Ornans. 
Eccolo qua:


Il grande albero occupa, con la sua chioma verde, tutto lo spazio della tela e i rami, pieni di foglie, sembrano talmente vitali da oltrepassare i bordi della cornice. 
È un dipinto di una grande forza.
Quando lo esegue, nel 1863, Gustave Courbet è un uomo e un artista maturo.
Nato a Ornans, tra le montagne e le foreste del Giura, ha compiuto gran parte della sua carriera a Parigi. 
Con il suo carattere aperto e irruente si è saputo fare molti amici, difendendo i principi del movimento "realista", di cui è accreditato caposcuola, grazie alla sua ostinata volontà di ritrarre la vita che gli sta attorno, senza abbellimenti né artifici. 
Ma si è procurato anche dei nemici. E non pochi. 
Spirito indipendente, tiene più di ogni altra cosa alla sua libertà e, di certo, non nasconde la sua vicinanza al socialismo e le sue idee anarchiche e libertarie. 
E neppure la sua opposizione al governo dell'imperatore Napoleone III. 
I suoi principi li esprime a voce alta e forte, senza compromessi e senza mezze misure. È sempre pronto a discutere con gli amici, ama la vitalità e la confusione della città, ma nel suo cuore la campagna in cui è nato e cresciuto occupa il posto più importante. 

Il padre possedeva, a poca distanza da Ornans, a Flagey, una fattoria con tanto di animali e vasti campi coltivati: in quegli spazi Courbet si sente libero di essere se stesso. 
Si fa costruire un atelier, dove può lavorare tranquillamente e prende ad andarci sempre più spesso. Per i suoi amici parigini, artisti e letterati, organizza battute di caccia. Oppure li ospita tutti insieme con le loro compagne, pur sapendo che, con i loro abiti all'ultima moda e i loro atteggiamenti spregiudicati, scandalizzeranno i ben pensanti. 
Ma a Courbet dello scandalo e dei pettegolezzi poco importa. 
Là si trova a suo agio, attratto com'è da quegli orizzonti aperti e anche dalla vita frugale e severa dei contadini, di cui, comunque, sa riconoscere la difficoltà e la durezza. Gli piace fare lunghe camminate tra i sentieri rocciosi lungo il corso del fiume e dipingere a cavalletto, all'aria aperta. 

È proprio li che raffigura la grande quercia. 
Più che un paesaggio, una sorta di ritratto, o meglio- com'è spesso stato detto- di autoritratto- perché in quell'albero robusto, fortemente radicato alla terra, sembra raffigurare la parte più profonda di se stesso. 
E lo dipinge con il suo tronco nodoso e l'ombra delle fronde sul suolo con un'attenzione e una precisione quasi  affettuosa, foglia per foglia. 
Poi gli dà un sottotitolo, "Quercia di Vercingetorige presso Alesia, Franca Contea", che prende in giro Napoleone III la sua ipotesi, avvallata da studiosi reverenti, di situare il luogo della storica battaglia tra Galli e Romani non nel Giura, ma in Borgogna. 
Un dipinto, dunque, legato all'amore per il paese natale e la sua storia. 
Fatto per quei luoghi, per quella luce e per quella atmosfera. 

Eppure, il quadro lascia, già a fine Ottocento, Ornans e la Francia per essere venduto negli Stati Uniti e arrivare, poi, fino in Giappone, dove viene comprato da un ricco industriale
Ormai talmente lontano da sembrare quasi perduto. 
E, invece, quando si viene a sapere che l'intera raccolta del collezionista giapponese è in vendita, a Ornans, dove intanto è stato creato il Museo Courbet, si comincia a sognare di un ritorno. 
Certo non è facile convincere il proprietario a vendere quell'unico dipinto al piccolo Museo, separandolo dal resto della collezione. 
E, poi, il prezzo, di quattro milioni e mezzo di euro, sembra inarrivabile per una cittadina di quattromila abitanti. 

Ma i più ottimisti (o i più ostinati) sono convinti che i desideri a volte si realizzano e pensano di organizzare un sottoscrizione. 
Con grande sorpresa scoprono che a rispondere all'appello sono più di millecinquecento. 
E che a ricompare il quadro ci tengono tutti, non solo le banche, gli industriali o i commercianti più agiati per farsi una facile pubblicità.  
È, invece, una comunità intera a sentirsi coinvolta, tanto che, a inviare gli assegni, anche solo di appena dieci o quindici euro, sono le persone più comuni, i contadini, gli operai i pensionati. 
Sembra impossibile ma, col contributo di tutti, si arriva- e qui le cifre sono importanti-  a due milioni e settecentomila euro. Il resto lo metteranno le istituzioni locali e il Ministero della cultura
Il sogno diventa realtà e, finalmente, il 9 marzo del 2013, il quadro è pronto per essere appeso, al posto d'onore, su una parete del museo (qui). 

Chissà in quanti ricordano che Courbet, dopo la caduta di Napoleone III, nel 1871, partecipò da protagonista alla Comune di Parigi. Dopo la sanguinosa fine di quell'esperienza fu arrestato, condannato a sei mesi di prigione e- con l'accusa di averne autorizzato la distruzione- obbligato a pagare le enormi spese della ricostruzione della Colonna Vendôme (qui). Un pretesto, forse, per allontanarlo dalla vita pubblica e costringerlo, a rifugiarsi in Svizzera, dove morì, sei anni dopo, lontano da Parigi e dai luoghi che tanto aveva amato.

E ora, con la grande festa che saluta l'acquisto del dipinto, la sensazione è che non si celebri solo il recupero di un quadro. 
Per molti, con la sua grande quercia, è Courbet stesso che è tornato a casa.





sabato 19 luglio 2014

La "magia nera" di René Magritte


"C'est un acte de magie noire de transformer la chair de la femme en ciel" (René Magritte)



Per me che abito a Bruxelles,  uno dei migliori modi per rinfrescare la testa (e le idee) nel caldo dell'estate rimane quello di andare al Museo dedicato a René Magritte e sostare davanti a uno dei suoi quadri. 
Magari proprio di fronte a questo, intitolato "La magia nera"



In una loggia aperta su un azzurro di cielo e di mare, una donna nuda, con la testa china, sembra assorta in se stessa. Forse sta meditando o forse sognando.
Il soggetto potrebbe essere tutto qui, un "Nudo di donna" come tanti altri, se il pittore non fosse René Magritte. 
Ma ecco il suo tocco inconfondibile! Gli basta intingere il pennello nell'azzurro dello sfondo per trasformare parte del corpo della donna nella stessa materia del cielo. 
E ora sembra quasi che aspetti le reazioni degli spettatori, come un mago contento del suo incantesimo.
Tanto più che ha dato al dipinto un titolo, "La magia nera", che riassume bene quale sia, secondo lui, il potere della pittura.

"Trasformare la donna in cielo: questo è l'atto di magia":- taglia corto, se deve rispondere a chi gli chiede il significato del quadro.
"La potenza del mistero si manifesta, evocando il mistero degli esseri familiari": afferma. 
Per lui, in effetti, non c'è niente di meglio che raffigurare e  trasformare gli aspetti più conosciuti del quotidiano per provocare uno spiazzamento, una di quelle che chiama  "fratture della realtà". 
Ho già parlato più volte dei dipinti di Magritte (qui è il link), di come gli oggetti della vita di tutti i giorni, visti fuori del loro contesto, vi assumano significati inaspettati e di come le persone rappresentate nei suoi ritratti  si possano rivelare enigmatiche e ambigue.

Quando, nel 1933, dipinge la "Magia nera", Magritte è già ben cosciente dei suoi mezzi di artista. Rientrato a Bruxelles, dopo un soggiorno a Parigi dove ha aderito con convizione al Surrealismo, si è stabilito, con l'inseparabile moglie Georgette, al pianterreno di una casetta di periferia. 
Per vivere disegna manifesti pubblicitari in un atelier che si è costruito in giardino. I suoi quadri, invece, li dipinge a un cavalletto, piazzato vicino alla porta che dà sul cortile. 
Per le riunioni con il gruppo dei surrealisti belgi c'è appena un tavolo  tra la cucina e il salotto dipinto d'azzurro, dove Georgette suona il piano, mentre dall'attaccapanni dell'ingresso è appesa l'immancabile bombetta (della loro casa e del loro armadio rosso ho parlato qui
Magritte, all'epoca, ha già cominciato a costruire la sua vita in modo che, dall'esterno, sembri scorrere entro i binari del più piatto conformismo. 
Completo scuro a doppio petto, capelli dal taglio impeccabile, bombetta e cane al guinzaglio, fanno parte integrante della sua nuova immagine.
Si è convinto che, solo immergendosi fino in fondo entro gli schemi, sarà libero di scardinare, dall'interno, tutte le convenzioni.

"Amour", foto del 1928, Fondation Magritte
Georgette, come sempre, gli è accanto.
Si sono conosciuti tra le giostre di una fiera di paese e si sono rivisti a Bruxelles. Lì si sono innamorati e, giovanissimi, si si sono sposati (della loro coppia ho parlato qui)
Non hanno avuto figli e, forse per questo, sono ancora più uniti.
Lei condivide le sue idee e lo asseconda con ironia, tanto da entrare nella cornice piccolo-borghese, che lui sta costruendo, arricchendola con i suoi improbabili cappellini, i colletti e i guantini di pizzo. 
Ma è anche la prima a scatenarsi negli scherzi fotografici organizzati con gli amici.
Soprattutto, è disponibile a fargli da modella e a nascondere e, insieme, a svelare il suo mistero. Chi se non lei potrebbe prestarsi a essere trasfigurata, da un tocco di "magia nera", in una donna metà celeste e metà terrena? 


E mentre, nel dipinto, le pareti del loro piccolo appartamento sembrano aprirsi in uno sfondo infinito di mare e di cielo, il fascino di Georgette consente a Magritte di catturarci nella trappola della sua pittura 



Per chi voglia riscoprire René e Georgette in quella Bruxelles che tanto gli assomiglia, copio da un post precedente un itinerario da percorrere in città:
La prima tappa è il Musée Magritte (qui) anche se Magritte mi pare vi sia  fin troppo “museificato”, con un allestimento troppo “serio” per l’ironia dei suoi dipinti.
Per conoscerlo davvero, è meglio visitare la lora casa di Jette (qui) che ora è  aperta al pubblico. Qui si possono ritrovare non solo l'ambiente che ho descritto, ma anche tutti gli elementi che compaiono nei suoi quadri.
Da prevedere, poi, un passaggio (con birra obbligatoria) nei bistrot preferiti: La Fleur en papier doré (qui), dove si trovavano tutti gli amici surrealisti e il Greenwich (qui), ora interamente restaurato, dove, ogni tanto, Magritte giocava a scacchi,  fumando l’immancabile pipa.
E' visibile, ma solo dall'esterno, anche l'ultima abitazione, la villetta di rue de Mimosas, dove Magritte, insieme a Georgette, è stato  fotografato tante volte nei suoi ultimi anni di vita, quando era diventato ricco e famoso, grazie ai collezionisti americani.
A me  e a mio marito piace, ogni tanto, fare anche una visita al cimitero di Etterbeck, dove riposano insieme e dove, a ricordarli, c'è solo una semplicissima lapide con  la scritta "René et Georgette Magritte" 
A volte cediamo alla tentazione di portare dei fiori, anche se sappiamo che lui- brusco com'era- non li avrebbe graditi e che avrebbe esclamato con il suo inconfondibile accento belga:  “Quel gaspillage! Che spreco!”.





mercoledì 16 luglio 2014

Paul Klee: "Paesaggio con uccelli gialli"




Orfana, come mi sento, delle emozioni dei Mondiali di calcio, queste lunghe giornate di un'estate a Bruxelles, dove le nuvole stentano a lasciare spazio al sole, mi sembrano fin troppo monotone. Per questo mi venuta voglia di rivestire il blog del colore sgargiante della fantasia. 
E di pubblicare un dipinto come il "Paesaggio con uccelli gialli" di Paul Klee, ora in collezione privata:


Siamo nel 1923 e Klee, all'epoca già oltre la quarantina, lavora in Germania, a Weimar, nella prestigiosa scuola del Bauhaus, dove è stato chiamato da Walter Gropius in persona per insegnare prima rilegatura e poi pittura. Là si è costruito la fama  di un  professore capace di tenere lezioni che incantano i suoi allievi.  
Anche se alcuni ammettono di capirci poco o nulla, tanto sono differenti da quelle tradizionali, i più sono  entusiasti e dicono che "parla come un Dio".
Di sicuro a Klee piace insegnare e cerca di condividere con i suoi studenti  le sue idee e le sue esperienze: dalla formazione all'Accademia di Belle Arti, all'incontro, a Monaco di Baviera, con artisti come Kandinskij, Franz Marc (qui) e gli altri pittori del movimento del Blaue Reiter, all'entusiasmo per il loro nuovo modo di dipingere.
Forse con loro rievoca il momento in cui, dopo un viaggio in Tunisia,  ha scoperto l'importanza del colore che, da allora, considera l'essenza stessa della sua pittura.

Chissà quante volte, nelle sue lezioni, ha ripetuto che l'arte "non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è".
quanto si è sforzato di far capire che "l'arte non deve imitare la natura, ma deve inventarla".
Un pittore, per lui, quando dipinge deve, almeno "per un istante credersi Dio" per creare mondi che abbiano regole proprie e che traggano ispirazione dalla realtà, pur senza raffigurarla troppo fedelmente.  
Fino a inventare, come fa nei suoi dipinti, tutta una serie di universi gioiosi fatti di pesci dorati (ne ho parlato qui) di strane piante, di figure stilizzate che danzano, di palloncini rossi, di case dai tetti aguzzi, di barche, di animali colorati e fantastici.
Da figlio di musicisti e violinista provetto, di sicuro avrà insistito sul valore fondamentale della musica, spiegando che una tela può essere come uno spartito, dove ricreare, con le linee e i segni, la melodia più armoniosa. E dove l'orchestra non si compone di violini, di flauti o di clarinetti, ma di figure geometriche, di frecce, di cerchi o di triangoli.

È quello un periodo, in cui Klee guarda, con sempre maggiore attenzione, ai disegni, dei bambini, cercando di mescolare l'espressività infantile con quella dell'arte primitiva: è solito dire che solo "i bambini, i pazzi o i primitivi, hanno ancora- o hanno riscoperto- il piacere di vedere"
Certo non si scorda che, quando il figlio Felix era piccolo e la moglie era spesso fuori casa per mantenere la famiglia con le sue lezioni di piano, lo ha seguito, momento per momento, costruendo i suoi primi giocatoli, ma soprattutto disegnando insieme a lui e portandolo a "lavorare" con sé nello studio degli amici pittori (come il figlio rievoca qui in una bella intervista). 

Musica, ricordi,  disegni infantili, gusto per il colore: tutto si ritrova in questo paesaggio da favola, dove, in uno spazio senza profondità, in cui si mescolano cielo e terra, giorno e notte, in una specie di foresta tropicale tra bizzarre piante variopinte, svolazzano, a volte capovolti, strani uccelli di un giallo vivo. 
Basta seguirlo in questo suo mondo, magari accompagnati dalle note del suo amato Mozart (qui è un link), per essere sicuri che, da grande fantastico mago qual è, ancora una volta Paul Klee saprà portare una ventata di allegria e illuminare la giornata più grigia con le tinte variopinte dei suoi sogni







venerdì 11 luglio 2014

Canaletto "Il cortile degli scalpellini": il sogno di Venezia




Basta guardare un dipinto di Canaletto (1697-1768) per ritrovare, in una specie di viaggio nel tempo, la Venezia di tre secoli fa.
Ancora di più se si sceglie non una delle vedute più note del Canal Grande o della piazza san Marco, ma uno scorcio più inconsueto. 
Per esempio questo “Cortile degli scalpellini” ora alla National Gallery di Londra


La tela è ambientata in Campo san Vidal, dove ora il Canal Grande è attraversato dal ponte dell’Accademia. 
In effetti, sullo sfondo, dall'altra parte del canale compare ancora la chiesa gotica della Carità, con il suo campanile non ancora distrutto da un crollo, che oggi, invece, è inglobata nel complesso delle Gallerie dell’Accademia.
È una giornata luminosa di sole e, nel cortile dove lavorano, gli scalpellini hanno raccolto in una baracca provvisoria di legno il materiale necessario al restauro della chiesa di san Vidal (che non appare nella veduta). 
Tra i grandi blocchi di pietra sono sparsi qua e là gli strumenti da lavoro. 
La vita è quella di tutti i giorni.
Una donna corre a riprendere un bambino caduto per terra, un'altra si affaccia dal balcone, forse richiamata dal rumore, mentre i vasi di fiori si alternano alle tende bianche delle finestre. Sullo sfondo, i gondolieri solcano il canale oppure, con le  gondole ormeggiate, aspettano i clienti.

Siamo intorno al 1725 e Canaletto, poco meno che trentenne, è  rientrato a Venezia dopo un lungo soggiorno romano. 
A chi arriva da fuori, la città sembra piena di vita. Anche se dopo la fine della guerra turca e il trattato di Passarovitz nel 1718, ha perso il predominio sul mare, i commerci diminuiscono e le le finanze languono, Venezia è ancora capace di vendere bene se stessa.  
È diventata  una tappa essenziale del Grand Tour, il viaggio di conoscenza che molti intellettuali e giovani aristocratici europei intraprendono verso l'Italia. 
E attira come non mai i visitatori con la la bellezza dei suoi edifici, mai distrutti da guerre, ma anche con i suoi locali pubblici, il suo travolgente carnevale, le sue cerimonie sontuose, i suoi teatri e le sue sale da gioco. 
Con quell'insieme, insomma, di cultura e di gusto per l'avventura, che per molti è irresistibile.  
La sera si aprono al pubblico ben sette sale da spettacolo: tre per la commedia e quattro per l'opera.

Per la  bottega familiare dei Canal, guidata dal padre  specializzato in scenografia teatrale, il lavoro non manca, anzi ce n'è anche troppo. 
Canaletto, però, non ha più voglia di avere a che fare con il mestiere paterno. 
"Scomunicò solennemente il teatro, spintovi dalla indiscretezza de' poeti drammatici e si diede a dipingere vedute al naturale": racconta nel 1771, con un pizzico di drammaticità, Anton Maria Zanetti nel suo testo sulla pittura veneziana.  
Di certo Canaletto non ha rotto i rapporti con la famiglia, anzi continua ad abitare con tutti i parenti nella affollatissima casa di san Lio. 
Ha deciso, però, di iscriversi alla "Fraglia", la corporazione, dei pittori e di dedicarsi a un genere di pittura che allora comincia ad avere successo, "la veduta". Ha fatto bene i suoi calcoli e sa che le immagini della città sono sempre più richieste dai visitatori stranieri, desiderosi di portarsi a casa un souvenir pittorico di Venezia. 
Ha preso a girare per i labirinto delle calli veneziane, armato di matite e di blocchi da disegni per prendere degli schizzi di ogni chiesa, di ogni ponte, di ogni facciata. E si è abituato a percorrere la città da cima a fondo. Niente gli sfugge: l'intonaco sbrecciato di un muro, il davanzale di una finestra, il traffico intenso sul Canal Grande, le gondole ornate di felze che riparano dagli sguardi indiscreti qualche coppia clandestina, la piazza san Marco, il ponte di Rialto ma anche le calli e i rii più nascosti. 
Nei suoi giri per la città incrocia i ricchi patrizi con i loro eleganti abiti alla francese, ma anche i facchini, gli artigiani  e gli uomini e le donne mascherati con la bautta, nel lungo periodo del Carnevale.  
E disegna tutto. Sono proprio quei disegni, gli "scaraboti" come li chiama, che- rielaborati con l'aiuto della camera ottica- saranno la base dei suoi dipinti. (qui è un link)

Quando dipinge "Il cortile degli scalpellini", Canaletto non è si è ancora lanciato nel mercato internazionale, né ha conosciuto quello che più di tutti lo aiuterà nella carriera, il mercante e console inglese Joseph Smith. 
Ancora non è il pittore avido di guadagni che conosceranno, letteralmente a loro spese, molti degli illustri viaggiatori. E non partecipa con le sue vedute monumentali ben accomodate  a "inventare" il mito di Venezia ad uso degli stranieri.
Per questa tela ha accettato di lavorare per un committente veneziano, uno di quelli che non pagano grosse cifre, ma che sanno apprezzare gli aspetti più minuti della vita quotidiana della città. 
E forse per questo Canaletto si sente libero di ritrovare, avvolta in una luce dorata dove prevale il tono dell'ocra e del marrone, l'essenza più vera e profonda di Venezia: quel misto "di splendore e di sporcizia" di una città che nasconde la sua decadenza dietro la più brillante delle apparenze. 
In quell'appartato "Cortile degli scalpellini", in un giornata come tante, la vitalità si mescola alla malinconia di "una Venezia che si sbriciola e si sgretola", avvolta in un teatro di illusioni che sembra, sempre di più, avere la consistenza effimera di un sogno.





Come musica di accompagnamento, non il martellare degli scalpellini, ma le note di un concerto di Tomaso Albinoni, per altro quasi coetaneo di Canaletto: qui è il link


mercoledì 2 luglio 2014

Il calendario di pietra: luglio




"Dixe luglio: io fazo i meluni/ batto lo frumento cum grossi bastoni/ Spogliomi in chamixa per il gran sudore/ Faxomi chuoxere de’ boni capponi " (Ballata dei mesi, XIV secolo)

Luglio, il mese che prende il nome da Iulius, Giulio Cesare. 
Luglio, il mese del caldo e del sole ardente
"A luglio gran calura, a gennaio gran fredddura": dice un proverbio molto diffuso che lo contrappone al gelo dell’inverno.
Anche nei Calendari scolpiti dei mesi dell’inizio del XIII secolo, Luglio è il mese del sole e, come avveniva per Giugno, è legato alla coltivazione del grano: l’attività che si usa raffigurare è quella della battitura, la prima fase della trebbiatura.
Ed ecco come appare Luglio nella formella del ciclo di Ferrara, ora conservata al Museo della Cattedrale.


Qui il cavallo è, insieme all'uomo, il grande protagonista. 
Ma non si tratta del focoso destriero di un guerriero o-  come nel mese di Maggio- di un aristocratico cavaliere, ma dell'umile e robusto animale addomesticato  per i lavori più pesanti della campagna. 
La battitura del grano può essere svolta dal contadino manualmente, usando il doppio bastone snodato, il  correggiato, oppure- per i pochi che se lo possono permettere- con l'aiuto, appunto, dei cavalli, che al ritmo cadenzato, dei loro zoccoli, battono le spighe legate e messe ordinatamente a terra, frantumandole e facendone uscire i semi. 
Una pratica, questa, derivata dell'antichità e molto meno faticosa per l'uomo.

Nella formella, Luglio si presenta come un giovane contadino, vestito con la corta tunica estiva e con i piedi nudi,  che, tenendo in mano un bastone, guida due cavalli legati con una corda ben stretta nella mano. 
I fasci di spighe ai suoi piedi sono già pronti per la battitura.

La trebbiatura, nelle sue varie fasi, è considerata allora, l'avvenimento più importante dell'anno agricolo, quello in cui il lavoro dell’uomo assume una dimensione quasi sacra. 
Il pane rappresenta l'idea stessa del cibo. 
Le spighe colme, raffigurate in primo piano, sono un segno di abbondanza. Anche se si sa che la maggior parte  andrà al nobile padrone delle terre, un buon raccolto significa per i contadini la speranza di assicurare nutrimento a se stessi e alle loro famiglie.
I giorni caldi della trebbiatura sono una delle rare occasioni di festa: al lavoro partecipano tutti, giovani e vecchi. Nei campi, a volte, risuona qualche parola di incitamento scherzoso e qualche canto. 
La buona stagione è al suo culmine e la natura si presenta nel suo aspetto migliore. 
Può bastare per sperare di superare le difficoltà quotidiane e, al calore del sole, nella fatica comune, dimenticare ogni preoccupazione per il futuro.