giovedì 25 settembre 2014

OakoAak: il sorriso all’angolo della strada



Una pausa di leggerezza e senza troppi pensieri: perché no?

Se si sta attenti, camminando, può succedere, di fare strani incontri.
Ecco, proprio là, sullo sfondo di un muro grigio, un’acrobata vestita di rosa, con tanto di ombrellino e scarpette da ballo, che si esibisce, usando come filo, gli anelli di una catena di recinzione:


Oppure, ecco qua una foca che gioca col pallone, nascosta tra le crepe di un muro:


O un giocatore di golf che lancia addirittura un cuore rosso fuoco nel cortile di una fabbrica dismessa:


La ballerina, la foca giocherellona, l'appassionato di golf non sono altro che alcuni dei personaggi creati, qua e là per le città d'Europa, dalla fantasia dello street artist francese OakoAk.
Nel suo sito (qui) spiega che il suo lavoro è nato, soprattutto, dalla voglia di divertirsi (e di divertire i passanti), trasformando in una sorta di gioco le piccole imperfezioni che ha trovato passeggiando per strada. 
Estrosità e senso dell'umorismo gli sono sufficienti per far spuntare in una sconnessione tra marciapiede e asfalto, un'intera carovana di dromedari pronta a partire per le dune del deserto, mentre un ciuffo di erbacce diventa, per incanto, un'oasi:


Oppure per trasformare un banale cestino dei rifiuti in una gabbia che racchiude uno smarrito, quanto avvilito, orso polare:


Come abbia cominciato OakoAk lo racconta così: 
"Siccome vengo da Saint Etienne, una vecchia città industriale che è in corso riconversione, ho provato la necessità di rendere la mia città meno grigia e, allo stesso tempo, più divertente. L’umorismo è sicuramente l’elemento più importante in quello che faccio. 
Cammino molto ogni giorno .. e quando vedo qualcosa di interessante, lo  misuro e lo studio, poi preparo a casa i disegni e le bozze e infine torno per fare il collage. Il mio interesse principale è dare importanza a luoghi e oggetti che le persone non notano più".
Come questo vecchio muro scalcinato, in cui un omino rosso cerca di penetrare (oppure, chissà, di fuggire), con l’aiuto di una scala:


Insomma, non c’è tombino, crepa o  intonaco sbrecciato, con cui OakoAk non si possa divertire. 
Grazie alla sua fervida immaginazione, anche i più banali elementi dell’arredo urbano possono  riservare non poche sorprese.
Chi direbbe mai, per esempio, che un paracarro possa trasformarsi, niente di meno, che nel celebre omino con bombetta di René Magritte?


Oppure che le strisce di un passaggio pedonale siano capaci di animarsi e di dare l'impressione di poter apparire o scomparire sotto i nostri occhi:


Leggerezza, ironia e, sopratutto, forbici e adesivi bastano a OakoAk per compiere la sue piccole magie.
Partito dalla Francia, piano piano, con i suoi scherzosi interventi, è arrivato dappertutto,  dall'Italiaall'Inghilterra, dalla Cina alla Thailandia
Le sue opere non sono mai invasive, né volgari. 
E, oltretutto, hanno anche un grande pregio: quello di essere facilmente rimovibili. 
Non sono dipinte, ma semplicemente incollate e, quindi, del tutto provvisorie. 
"Le mie opere hanno una durata limitata- spiega lo stesso OakoAk- una volta lasciate in un posto e incollate, rimarranno lì fino a che non scompariranno dopo una settimana o due, a volte un po’ di più. Ma a me non importa, io adoro l'idea di un lavoro effimero"
Però, finché sopravvivono, danno l'occasione a chi passa indaffarato e  le osserva anche solo con la coda dell'occhio, di notare un dettaglio a cui non avrebbe mai fatto caso.

Certamente, il suo elicottero non potrà eternamente portare soccorso a chi sembra essersi rifugiato dietro la presa d’aria di una cantina:


Né il fumo continuerà a levarsi, per un tempo indefinito, dalla ciminiera della sua fabbrica:


  
Sono opere lievi, effimere come una bolla di sapone. 
Non hanno la pretesa di essere arte e nemmeno di esprimere chissà quali critiche sociali.
Vogliono solo offrire un sorriso, con una strizzatina d'occhio e un pizzico di ironia: tutto qui.
Ma, di questi tempi, davvero, non è poco.







Per chi voglia vedere altre immagini qui è il link al blog di OakoAk, e qui alla sua pagina Facebook.


venerdì 19 settembre 2014

La voce del silenzio: gli interni di Vilhelm Hammershøi




Una tela, in cui sembra che la vita sia sospesa, intitolata "Interno"e ora al Museo danese di Randers.
Sullo sfondo di un muro grigio-azzurro, contro cui è collocata una credenza, è raffigurata- in piedi e vista di schiena- una giovane donna, vestita di scuro con la testa lievemente girata di tre quarti e un vassoio sotto il braccio sinistro, mentre un raggio di sole le illumina la nuca.


In una stanza dai colori tenui sono appoggiati alla parete due sedie bianche e un grande divano scuro. 
Nessuna presenza umana in questo dipinto intitolato "Tramonto nella stanza da disegno" e ora al Museo di Berlino:


Un'infilata di stanze, in cui si aprono una serie di porte bianche, da cui si intravedono pochi mobili: un tavolino, una sedia e, più lontano, un pianoforte. Colori tenui, e un’atmosfera ovattata in queste "Quattro stanze", ora al Museo di Copenaghen:


Ambienti spogli, disadorni, linee nette, una figura di donna, di cui non si vede o si intravede appena il volto e un’atmosfera dolce e malinconica.
Sono i dipinti del danese Vilhelm Hammershøi (1864-1913).

Temperamento solitario e riservato, Hammershøi (1864-1916) nato a Copenaghen in una famiglia agiata e colta, decide molto presto di dedicarsi esclusivamente alla pittura e, dopo regolari studi accademici, conduce un’esistenza tranquilla e senza clamori con l’amatissima moglie Ida, sposata nel 1891. 
Tutt'altro che isolato, viaggia ed espone i suoi dipinti nelle maggiori città d’Europa, ammirato da personaggi come Serge Diaghilev (il fondatore dei Balletti Russi), il poeta Rainer Maria Rilke o il regista Carl Theodor Dreyer. 
Pur essendo ben informato sulle ultime tendenze dell’arte contemporanea, rimane sempre fedele alla sua maniera di far pittura, al di fuori di ogni moda e di ogni tentativo di classificazione.
Per la critica dell'epoca, questo danese timido e ombroso deve apparire come un oggetto misterioso: ma come si fa- avranno pensato- nei primi anni del ‘900 a ignorare la maniera di dipingere dei pittori post-impressionisti, con il colore che si decompone e che si frantuma, fin quasi a scomporre il soggetto? Come si fa ad essere così  antiquati?  
In effetti, mentre nel resto d'Europa infuriano i dibattiti e le avanguardie artistiche sognano di cambiare il mondo, Hammershøi continua a dipingere, con il suo stile immutabile, i suoi soggetti preferiti: qualche  paesaggio, la sua famiglia, ma, soprattutto, le stanze della sua casa. 
Stanze vuote o, al massimo, abitate da una figura femminile- la moglie Ida- per lo più vista di spalle. 
Come in questa tela, intitolata "Donna al piano" e ora al Museo di Copenaghen, dov'è raffigurata, sempre vestita di scuro e vista di schiena, seduta a un pianoforte.
In primo piano, un tavolo con una tovaglia di un bianco immacolato, stirata di fresco, su cui poggiano due scodelle e un piattino con il burro, mentre la luce del sole che illumina la stanza, ne  rende ancora più abbagliante il candore: 



Mentre, all'epoca, gli appartamenti sono sovraccarichi di mobili, di carte da parati, di piante e di ammennicoli di tutti i tipi, i suoi ambienti sono più spogli e depurati possibile, fino a diventare pure geometrie di luce;
"Scelgo un tema per le sue linee- scrive Hammershøi- e solo per ciò che io chiamo il contenuto architettonico di un’immagine". 
La luce per lui è importante, ma non ha bisogno di molto colore "perché- sostiene– meno colori ci sono in un quadro tanto meglio funziona". 
Perciò si è abituato a usare una gamma estremamente ridotta di tinte, basata su sottili variazioni di bianchi, di grigi o di bruni, che conferiscono ai suoi dipinti un'atmosfera irreale e senza tempo.
Come in questo quadro, intitolato "Raggio di sole" e ora al Museo di Copenaghen, dove il pulviscolo dorato che entra dalla finestra riempie l'ambiente di una delicata vibrazione:




Tutto è così essenziale che i suoi interni chiari e silenziosi, sembrano rifarsi, più che alla pittura contemporanea, all'intimità dei maestri olandesi del Seicento e appaiono molto più vicini alla meticolosa sobrietà di Vermeer che al fragore di Picasso o di Matisse. 
Come in questo quadro, intitolato "Ida che  legge", ora in collezione privata, dove tutto è nitido e lindo e dove una donna di profilo sembra colta, di nascosto, nella sua intimità: 




Saranno i colori, oppure le inquadrature, ma sembra sempre che nei suoi quadri, muti e senza racconto, ci sia un qualche enigma da decifrare e che la calma e l’armonia apparente di quelle stanze possa nascondere una grande solitudine.

Dopo la morte di Hammershøi, con la tragedia della prima guerra e le rivoluzioni pittoriche dal cubismo al dada, il suo stile sobrio e immobile finisce per passare di moda e cadere nell'oblio. 
La sua riscoperta avviene solo negli anni '90 del Novecento, quando i critici, conquistati dal suo fascino discreto,  paragonano la sua pittura alle silenziose nature morte di Giorgio Morandi e i suoi personaggi ai solitari protagonisti dei quadri di Edward Hopper. Oppure ne riconoscono  le risonanze con il teatro di Ibsen, se non con certi film di Ingmar Bergman o dei registi danesi contemporanei del movimento di "Dogma"
Finalmente, il suo "realismo malinconico", com'è stato definito, è tornato di nuovo ad ammaliare, tanto che il suo rigore, la sua purezza misteriosa, la sua sobrietà senza orpelli sembrano porsi come un antidoto al caos fragoroso e opprimente dei nostri giorni. 
Quelle stanze vuote, quegli interni intimi e perfetti fanno risuonare qualcosa di profondo dentro di noi. 
Come se la sua pittura senza tempo ci mostrasse- come diceva Rilke- "la strada per scoprire ciò che davvero è importante ed essenziale". 
E non solo nell'arte.





Qui è il link a un video in cui Melania Mazzucco presenta un dipinto di Hammershøi esposto alla mostra "Ossessione nordica" che si è tenuta a Palazzo Roverella a Rovigo, da febbraio a giugno 2014.


sabato 13 settembre 2014

Il grigio di Marc Chagall: "L'anima della città"




Dove sono finiti i verdi smeraldo, i gialli vivaci, i rossi carminio che Marc Chagall (1887-1985) utilizzava abitualmente per le sue tele? 
In questo dipinto, intitolato "L'anima della città" e oggi conservato a Parigi al Centre Pompidou, non c'è quasi più traccia dei suoi colori. Su tutto domina il grigio. 


Su uno sfondo che sembra quello di un cielo in tempesta, Chagall si raffigura con due volti, come il dio romano Giano, mentre intorno a lui fluttuano strane apparizioni. 
Siamo nel 1945 e l'artista, già da qualche anno, si è rifugiato, negli Stati Uniti, a New York, per sfuggire la barbarie nazista e la guerra che scuote l'Europa. 
Ma anche da lontano partecipa, lui ebreo, al dolore e alla sofferenza del suo popolo. 
Le tavole della legge, l'arca dell'alleanza avvolta da un drappo rosso e il candelabro che raffigura nel quadro sono tutti simboli  della sua identità. 
Mentre la sua città natale, la sua amata Vitebsk, con le sue cupole colorate e le sue strade costeggiate da case di legno, sembra qui una città fantasma, dove si leva ancora il fumo degli incendi e delle distruzioni della guerra e dove qualche abitante cerca di fuggire su un carretto condotto da una vacca che vola nel cielo. 
Il grande Crocifisso, in primo piano, rappresenta, allora, il dolore per tutte le vittime delle persecuzioni e della guerra. 

Mai come in questo momento, Chagall si sente diviso in due. 
L’angoscia per la tragedia della guerra si accompagna a una sofferenza privata, lacerante: insieme alla sua città, è scomparsa anche colei che ne era l'anima, sua moglie Bella, raffigurata, nel dipinto, avvolta in un telo bianco con la stessa levità di un'apparizione o di un fantasma. 
Proprio la sua Bella, quella che ha ritratto tante volte mentre passeggiava, levandosi in volo con lui nei cieli variopinti della sua pittura (ne ho parlato qui). 
La donna, di cui si è innamorato, che ha sposato nel 1915 e che, per trent’anni, ha diviso la sua vita; la donna che lo conosce fin da quando si chiamava Moshe Shagal ed era un artista squattrinato, con un nonno macellaio e un padre venditore di aringhe. 
Con lei ha spartito, l'amore per Vitebsk e il ricordo delle passeggiate lungo il fiume, i vicoli pieni di gente, il mercato o le piccole botteghe, ma anche l’appartenenza alla stessa comunità ebraica con la presenza quotidiana del rabbino, le cerimonie religiose e l’allegria della musica e della danza scatenata. 
Con lei ha lasciato la Russia per stabilirsi a Parigi e con lei ha condiviso la buona sorte, quando è arrivata la notorietà. 
"È come se Bella sapesse tutto di me, del mio presente e del mio avvenire...per molti anni il suo amore ha avvolto tutto quello che facevo come una luce":- ha sempre detto Chagall. 
Quando è morta, nel 1944 in un ospedale americano, per lui "le tenebre hanno avvolto tutto". 
Ha voltato contro il muro le tele del suo studio e per nove mesi ha smesso di dipingere. 
In quel momento il suo mondo è andato in frantumi, ogni luce è scomparsa e il dolore ha portato via con sé ogni colore, lasciando solo il grigio. 

Ora però, qualcosa sta cambiando, tanto che Chagall ha ripreso a lavorare e si rappresenta qui con pennello e tavolozza. 
Sente che il grigio della sua vita non è ancora sparito, ma forse sta ricominciando a riprendere fiducia nell'avvenire. 
Da un lato, c'è il ricordo di Bella che riempie lo spazio intorno a lui; dall'altro c'è la presenza e forse già l'amore per un'altra donna incontrata da poco, la bionda Virginia, che raffigura in basso con in braccio un gallo, che per lui è il simbolo dello slancio vitale e del rinnovamento. 
Con lei c’è una nuova vita che lo reclama e, soprattutto, c’è la speranza di ricominciare a ridare colore al mondo. 

Pochi artisti, come Chagall, hanno saputo parlare, nei loro quadri, delle loro sensazioni e raffigurarle, come qui, in immagini semplici che richiamano la cultura popolare o le illustrazioni dei libri per bambini, ma che risentono anche di influenze artistiche che vanno dal cubismo al surrealismo. 
"L’arte per me è soprattutto uno stato d'animo": ha sempre detto Chagall, tanto che nei suoi dipinti non cerca di imitare la realtà, ma piuttosto di raccontare quello che gli succede, trasfigurandolo con la sua fantasia, come se i suoi quadri non fossero che un prolungamento di se stesso. 
E così ci consegna, anche stavolta, un pezzetto della sua vita, mescolando la sua vicenda personale alla grande storia, il suo dolore privato al dolore di tutti e trasformando le sue emozioni in un’opera d’arte.






domenica 7 settembre 2014

Fotografare i sogni: Jerry Ueslmann




È possibile fotografare i sogni? Me lo sono chiesta, guardando queste fotografie.

Due mani accostate che sembrano contenere il mare, una barca e un pezzo di cielo:



Una casa abbandonata che pare abbia messo radici, quasi fosse il tronco di un gigantesco albero:



Un salotto elegante di una casa signorile, dove,  sul  pavimento diventato sabbia, qualcuno ha costruito un castello con tanto di torri e di fossato:



Immagini affascinanti, dove i confini tra realtà e fantasia si annullano.
Sono le foto di Jerry Ueslmann, nato a Detroit nel 1934 e maestro riconosciuto della fotografia contemporanea. 
Negli anni '50 e '60, quando le foto digitali e i programmi di foto-ritocco sono ancora di là da venire, Ueslmann sperimenta un modo diverso di fare fotografia. 
Diverso, soprattutto, dall'estetica- all'epoca prevalente- basata sull'istantanea e sull'idea di cogliere il "momento decisivo", insomma su un concetto di fotografia come testimonianza diretta della realtà. 
Per Ueslmann, invece,  lo scatto è solo un un punto di partenza.
Secondo lui il processo creativo si realizza, invece, nella camera oscura, attraverso tecniche sofisticate e una serie interminabile di passaggi.
È lì che mescola i suoi negativi, li ricostruisce, li manipola fino a realizzare immagini sempre diverse, dove  oggetti differenti, accostati insieme, producono risultati stupefacenti. 
Le mani di una donna, un corvo e un nido possono, allora, diventare un'immagine come questa:



Oppure un enorme e misterioso albero può comparire d'improvviso a un gruppo di persone in controluce, come una strana visione che si levi dal mare, sullo sfondo di un cielo nero come la pece:


Piccoli miracoli di una fantasia, che Ueslmann lascia libera di esplorare i terreni dell'inconscio, così come voleva l'estetica del surrealismo. 
Nella sua ricerca, infatti, il suo punto di riferimento sono i grandi fotografi surrealisti, come Man Ray, ma, soprattutto, un pittore come René Magritte. 
Come succede nei quadri di Magritte, anche nelle foto di Ueslmann gli elementi della realtà non sono deformati, anzi, sono nitidi e ben riconoscibili, ma combinati in una maniera illogica che destabilizza e che spiazza.
"Le informazioni ci sono tutte- afferma Ueslmann- ma il mistero rimane".
Come in questa immagine, dove tutto è sottosopra, terra e acqua sono rovesciate e una barca galleggia  tra le nuvole:



Oppure come questa, dove uno strano angelo sembra levarsi in volo, sopra il cratere di un vulcano:



O, almeno, questo è quello che ci vedo io.
Perché, in realtà- come avviene per Magritte- Ueslmann lascia che sia lo spettatore stesso a trovare nelle sue foto quello che vuole. 
Ogni interpretazione è ammessa: a lui basta che le sue immagini mettano in crisi le nostre convinzioni e suscitino qualcosa dentro di noi, fin nel profondo.
"Sono attratto da immagini che sfidano il nostro senso del reale; i miei paesaggi non documentano la realtà alla lettera. Voglio che le immagini che creo sfidino la credibilità intrinseca della fotografia stessa. Considero le mie foto chiaramente simboliche, ma non c'è alcuna formula segreta per decifrarne il significato":- ha dichiarato in un'intervista.
Come se la fotografia fosse un mezzo per esplorare l'enigma di una realtà nascosta e misteriosa che sfida ogni ragionevolezza e che può essere dentro e fuori di noi. 
Una realtà, dove non c'è alcuna sicurezza, dove i soffitti delle stanze si aprono su un cielo nuvoloso e un uomo in miniatura passeggia su una scrivania:




Per ottenere immagini di questo tipo Ueslmann lavora in camera oscura con una pazienza da certosino. 
Tuttora, infatti si rifiuta di usare le foto digitali e i nuovi strumenti di foto-ritocco e continua ad archiviare centinaia di negativi, di alberi, di mani, di paesaggi, di interni, di nuvole... per combinarli e rielaborarli, seguendo la sua immaginazione.
Ueslmann, però, non è solo un virtuoso della tecnica: è ben di più.
In quella camera oscura, quasi fosse un mago o un alchimista, mescolando pazientemente i suoi elementi, crea delle immagini così poetiche e irreali da darci l'impressione di essere capace di fotografare i suoi e i nostri sogni. 








Qui è  il sito personale di Jerry Ueslmann dove è possibile  vedere la sua  galleria di fotografie
E qui un video dove Ueslmann racconta il suo lavoro in camera oscura


lunedì 1 settembre 2014

Il calendario di pietra: settembre




"Dixe Septembre: io coglio de li fighi/e l'uva vendemmo/ strengo le botte/e manzo li boni chaponi/ e bevo del mosto"(Ballata dei Mesi, XIV secolo)


Settembre, nono mese dell'anno, il periodo in cui l'estate (anche quella pazzerella di quest'anno) declina e lascia il posto all'autunno. 
Nessun dio della mitologia e nemmeno nessun imperatore nel suo nome: semplicemente era il settimo mese del calendario romano, che faceva iniziare l'anno da marzo. 
E da sette, appunto, ha preso il nome.

Nei calendari di pietra dell'inizio del XIII secolo, da cui, quest'anno, "stacco" un foglio ogni primo del mese, settembre è il tempo della vendemmia.
Dopo i lavori legati alla mietitura e alla trebbiatura del grano, la vendemmia, era  il momento più atteso dell'anno e l'occasione di una festa per l'intera comunità: il vino era importante per tutti. 
Non solo per la liturgia, dove, nel rito dell'Eucarestia, acquistava, insieme al pane, una valenza sacra, ma anche nel quotidiano, dove era consumato ogni giorno- e non solo dai ricchi- tanto da essere spesso considerato parte integrante del salario e da costituire un'utile e pregiata merce di scambio.  

Nella formella dedicata a settembre del Ciclo della Cattedrale di Ferrara (ora conservata al Museo della Cattedrale), gran parte della scena è occupata da una grande vite, con i suoi pampini e i suoi tralci, da cui pendono grappoli così pieni e maturi da far immaginare una raccolta più che abbondante:




Il contadino, a piedi nudi, è abbigliato con una corta tunica che, per comodità, ha annodato su un fianco. Per non impigliare i capelli nei tralci della vite si è messo in testa una di quelle cuffiette col sottogola, che all'epoca erano comunissime. 
Con grande concentrazione, sta cogliendo i pesanti grappoli per depositarli nell'ampio cesto di vimini,  già colmo, ai suoi piedi.
I particolari della formella sono di uno straordinario realismo, tanto che gli esperti di pratiche agricole hanno potuto notare che la vite è sostenuta da un palo, la cui preparazione era, probabilmente, raffigurata nel mese di febbraio (qui è il link): sarebbe questa una testimonianza di un sistema di coltivazione in filari ravvicinati, diverso da quello "ad arboretum", con le viti in coltura promiscua, praticato in età romana.

Altri dettagli, invece, come la perizia con cui sono sfruttate la luce e l'ombra, la cuffia così aderente alla testa da far trasparire l'orecchio, le vene che si intravedono nella mano destra o l'intreccio del canestro di vimini parlano della straordinaria abilità dell'ignoto scultore. 
Uno di quei maestri itineranti che, nella prima metà del Duecento, passano da un  grande cantiere all'altro e che portano in Italia le novità del naturalismo elaborato nelle sculture delle cattedrali dell'Ile-de-France. 
Un artigiano, abituato alla durezza del lavoro e che, probabilmente, ben conosce, per averle viste nelle campagne nel corso dei suoi spostamenti, quelle attività agricole, di cui sa rendere una così viva e tangibile testimonianza. 
E che, soprattutto, sa restituire, nel volto assorto e nobile del contadino, tutta dignità della fatica di tutti i giorni.