sabato 23 maggio 2015

Suzanne Valadon e Raminou: la pittrice e il gatto




Un gatto rosso tigrato che guarda perplesso, tra una tenda e un mazzo di fiori, in questa tela del 1919, ora in collezione privata. 


Lo stesso gatto, seduto con un atteggiamento regale tra un tappeto variopinto e un drappo di tessuto, in un dipinto del 1920, ora in collezione privata. 


Di questo gatto dall'aria battagliera conosciamo il nome, Raminou. 
Sappiamo poi che la sua padrona è la stessa pittrice che lo ha ritratto: Suzanne Valadon (1865-1938).
Probabilmente i due si sono incontrati, agli inizi degli anni '20, nel quartiere parigino di Montmartre, dove, tra vicoli, piazzette e scalinate, i gatti la fanno ancora da padroni (ne ho parlato qui). 
In realtà, non sappiamo come sia cominciata la loro convivenza, ma sarebbe bello pensare che Raminou non sia stato un viziato micino da salotto, ma un gatto di strada e che, come spesso succede negli innamoramenti, i due si siano scelti per somiglianza,  riconoscendo di avere in comune un' indomabile selvatichezza. 
È vero che del passato di Raminou non abbiamo alcuna notizia; conosciamo bene, invece, la vita randagia e senza regole di Suzanne.

Nata in una famiglia poverissima, ha dovuto cavarsela da sola, fin da bambina.
Montmartre dove si è trasferita con la madre, si è adattata, da subito, all'atmosfera di quel quartiere vivace, che mescola casette, botteghe e orti, ai caffè e ai cabaret frequentati da artisti e da borghesi in cerca di emozioni
Sfrontata e sicura di sé, già a dodici anni ha fatto tutti i mestieri, da pasticcera, a fiorista a trapezista da circo. 
Quando circola per la strada, con il suo fisico perfetto, gli occhi azzurri, la pelle di porcellana e i capelli che gli ammiratori definiscono "del colore del cognac" non passa, certo, inosservata. 
I primi a notarla sono gli artisti che hanno i loro studi a Montmartre. A quindici anni comincia a fare la modella per un maturo pittore, Puvis de Chavannes, con cui presto divide non solo l'atelier, ma anche il letto. 
Non è l’unico: da allora le sue relazioni amorose faranno scandalo, dalla storia con Renoir, al tentativo di suicidio per Toulouse Lautrec, alla passione per Eric Satie. 
Ma lei delle chiacchiere se ne infischia e non cambia il suo modo di essere. 
Piuttosto, cambia nome: al lezioso Marie Clémentine, con cui è stata battezzata, sostituisce il più esotico Suzanne, suggerito dalla scherzosa definizione di "Susanna tra i vecchioni" coniata per lei da Toulouse Lautrec a proposito delle sue frequentazioni  di artisti non più giovani. 
Nel 1883 mette al mondo un figlio, che alleva orgogliosamente da sola e a cui dá il suo cognome finché non  sarà riconosciuto, qualche anno dopo, dal giornalista spagnolo Miguel Utrillo. 
E continua intrepida ad andare avanti. 
Per qualche tempo sembra trovare pace nel matrimonio con un ricco agente di cambio. Ma dieci anni di vita tranquilla sono troppi per lei. 
Si annoia e "la noia è come una lebbra": scrive a un'amica. 
Ha voglia di riprendersi la vita e lo fa davvero, nel 1914, quando scappa con un uomo di venti anni più giovane di lei, André Utter, elettricista e pittore a tempo perso. 
Con lui e con il figlio, Maurice Utrillo, anche lui pittore, che, con le sue vedute di Montmartre, guadagna molto più di lei, forma quello che i più malevoli definiscono un "trio infernale", per cui eccentricità, eccessi e notti passate a bere sono un'abitudine. 

Un'esistenza fuori dagli schemi, la sua, in cui, fin dall'inizio, l’unico punto fermo, è stata la pittura: "da sempre ho voluto dipingere per riuscire a fermare la vita"- dice di se stessa. 
E lo ha fatto, trovando la maniera  che più le assomiglia, partendo da quelli che considera i suoi punti di riferimento, Gauguin e Van Gogh.
Negli atelier dei suoi amanti, poi, ha cercato sempre di catturare qualcosa della loro tecnica e del loro modo di dipingere: "ho avuto grandi maestri, da cui ho preso il meglio- ammette- ma da sola ho creato me stessa e ho detto ciò che avevo da dire".
Di tutti gli artisti che ha conosciuto il misogino e caustico Degas, è l'unico che non ha cercato di sedurla, ma che, invece, l'ha incoraggiata, convincendola a dedicarsi esclusivamente alla pittura: "sei dei nostri- pare le abbia detto- e devi pensare solo a lavorare". 
Lui che detesta, come Suzanne, ogni "buonismo" di maniera, le ha fatto il complimento di definire i suoi dipinti "cattivi" per le loro linee dure, i colori stridenti, le superfici piatte, le forme sottolineate da contorni neri e per il loro realismo quasi brutale. 
A Suzanne quella definizione piace e ha continuato a lavorare, con quella stessa "cattiveria", dipingendo tutto quello che ha intorno, a cominciare dai gatti (i suoi primi soggetti) e passando, poi, ai ritratti, ai nudi di donna, alle nature morte.

Dal 1919, il suo modello preferito è Raminou. 
Per lui recupera tutta l'energia e la vivacità della sua pittura come in questo dipinto del 1920 intitolato "Louison e Raminou", ora in collezione privata, in cui il verde dell'abito della donna sembra scelto apposta per far risaltare il rosso del pelo del gatto.


O come in questo con "Miss Lily Walton"del 1922, ora in collezione privata, dove il protagonista  è sempre lui, tanto che, nella stanza scura e ingombra, spicca sulle ginocchia della malinconica modella come l'unico elemento di vita. 


Oppure, quando è raffigurato da solo, come in questo dipinto del 1922, ci guarda imperscrutabile con i suoi occhi dorati dello stesso giallo del panno, su cui è sdraiato. 


Sembra che  Suzanne in quel gatto dall'aria indomita abbia ritrovato un po' se stessa
Ma anche Raminou si sente bene con lei, tanto che, stando a qualche testimonianza dell'epoca, lo si scopre a partecipare, completamente a suo agio, alle innocue quanto chiacchierate eccentricità  della sua padrona, come quella di mangiare caviale tutti i venerdì per onorare il digiuno canonico, o di girare per Montmartre a bordo di una carretta tirata da un asino.  

Intanto gli anni passano e, nel 1932, in questa tela in collezione privata, troviamo un  Raminou vecchio e malandato, che ha perso un po' della sua fierezza, mentre si riposa accoccolato al sole, su un tavolo da giardino.



Sarà il suo ultimo ritratto. 
Anche Suzanne, ormai pittrice nota e apprezzata, si ritira dalle battaglie della vita per offrirsi un'esistenza più regolare e serena.
Forse con un po' di rimpianto per quel periodo, in cui aveva condiviso con Raminou pittura e vita quotidiana, ritrovando in quel gatto tigrato un riflesso del suo stesso desiderio di  libertà. 


In una foto del 1919 Raminou è sulle ginocchia di Suzanne, tra Maurice Utrillo (a sinistra) e André Utter





sabato 16 maggio 2015

Lo schiavo di Velázquez: il "Ritratto di Juan de Pareja"



Una tela di Diego Velázquez (1599-1660), attualmente conservato al Metropolitan Museum di New York: 


Su uno sfondo neutro, un uomo dalla pelle scura e neri capelli crespi, vestito di un mantello marrone e di  un abito di panno con un ampio colletto bianco decorato di pizzo, rivolge uno sguardo pieno di fierezza verso lo spettatore. 
Con il suo misto di riserbo e di orgoglio, potrebbe sembrare un nobile gentiluomo, se non indossasse un abito talmente liso da mostrare, sulla manica, un vistoso buco all'altezza del gomito.
Di sicuro non è un raffinato aristocratico, né tanto meno un ricco borghese alla moda.
In realtà, il protagonista del dipinto, Juan de Pareja (1606-1670), occupa il ruolo più basso della scala sociale. 
È uno schiavo
Da anni è al servizio di Velázquez e lavora come assistente nel suo studio, dove, giorno dopo giorno, svolge i compiti più umili: pulire, mescolare i colori, preparare le tele, o fissare i telai. 
Finora la sua è stata una vita di quelle che lasciano poche tracce.
I documenti ne parlano appena: si sa che è nato in Andalusia e che è un "morisco", un discendente di quegli arabi, rimasti in Spagna dopo la Riconquista, convertiti a forza al cristianesimo e che spesso hanno alimentato, soprattutto nel sud della Spagna, il mercato degli schiavi.
Quando Velázquez lo ritrae, Juan de Pareja ha poco più di quarant'anni.
Siamo nel 1650 e entrambi si trovano a Roma: il pittore è stato incaricato da Filippo IV di acquistare dipinti e sculture per decorare le sale ancora disadorne dei palazzi reali. 
Velázquez non ha intenzione di trattenersi a lungo in Italia, ma ha deciso, comunque, di portare con sé il suo schiavo: pensa che potrà essergli utile, non solo come aiutante, ma anche come modello.
In effetti ha pensato di esercitarsi a ritrarlo, quasi fosse uno studio per una testa dal vero, in vista di una prestigiosa commissione che spera di ottenere quanto prima: il ritratto ufficiale del pontefice Innocenzo X. 
Non appena finisce la tela, decide di esporla, come prova della sua abilità, nella mostra organizzata, come ogni 19 marzo, sotto il portico del Pantheon dalla Congregazione dei Virtuosi, a cui si è iscritto fin dal suo arrivo a Roma. 
Il successo del ritratto va la di là delle aspettative. 
Stando a quello che racconta nel 1724, nelle sue "Vite dei pittori spagnoli", lo storico e critico d'arte Antonio Palomino: "il dipinto è elogiato da tutti i pittori provenienti da diversi paesi che dicono che le altre immagini della mostra siano arte, mentre questa sola è verità". 

Velázquez è, dunque, riuscito nel suo intento: con una pennellata veloce, una gamma di colori limitata, una grande economia di mezzi e l'uso di una luce capace di definire le forme, è arrivato a restituire non soltanto l'aspetto, ma il carattere stesso del suo servitore. 
Con una verità che gli consente, al di là delle barriere sociali, di mostrare la simpatia e il rispetto che prova verso il suo modello.
Per lui quel dipinto rappresenta la conferma della sua capacità di ritrattista: sa di essersi guadagnato l'ammirazione dei colleghi e degli intenditori d'arte, tanto che, non appena nominato membro dell’Accademia di San Luca, ottiene  la sospirata commissione per il ritratto del pontefice (qui). 
Il soggiorno romano gli ha portato bene e, a questo punto, può dirsi davvero soddisfatto.

E Juan de Pareja? 
Anche per lui quel ritratto rappresenta una svolta: pochi mesi dopo, nel novembre del 1650, Velázquez decide di affrancarlo con un atto legale, che stabilisce, come unico obbligo, quello di continuare a lavorare nel suo studio per altri quattro anni. 
Saranno anni importanti che gli serviranno per fare esperienza e diventare, oltre che fedele collaboratore dell'artista, anche pittore in proprio (qui).
Da allora in poi, può dirsi padrone della sua vita.
Ma se è vero, come afferma William Shakespeare, che "ogni schiavo ha nelle mani il potere di rompere le sue catene", probabilmente quel potere Juan de Pareja lo ha avvertito già nel momento, in cui si è visto, per la prima volta, nel ritratto di Velázquez.
C'è da pensare che, proprio allora, si sia reso conto che quel dipinto avrebbe consegnato all'eternità dell'arte, grazie al suo sguardo orgoglioso e fiero, l'immagine stessa della sua dignità di uomo. E che in quell'istante non si sia più sentito  inferiore, né schiavo, ma, finalmente e per sempre, un uomo libero.









Ancora due curiosità: la prima l'omaggio che  Salvador Dalì rende in questo dipinto del 1960 al ritratto di Velàzquez. 
La seconda, la cifra record di oltre cinque milioni di dollari, con cui la tela fu acquistata dal Metropolitan Museum (qui




sabato 9 maggio 2015

Goya innamorato? I ritratti della Duchessa d'Alba




Un dipinto di Francisco Goya (1746-1828) con il "Ritratto della duchessa d'Alba" (olio su tela, cm 194x 130), ora a Madrid, nella collezione Alba Dedica: 


Su uno sfondo di dune sabbiose, una donna, con i lunghi capelli neri, è in piedi, vestita di un elegante e vaporoso abito bianco, con un orlo dorato e il braccio sinistro ornato di bracciali d'oro. 
In contrasto con i colori neutri dello sfondo e della veste, i due fiocchi, uno tra i capelli e un altro allo scollo, l'alta fusciacca e la collana di corallo sono tutti di rosso vivace fino all'impertinenza; lo stesso rosso che spicca nel fiocco legato a una zampa del cagnolino bianco.
Con il braccio destro la donna indica, con un fare imperioso, la scritta sulla sabbia: "A la duquessa de Alba Fr.de Goya 1795".

Ecco come appare a Goya Maria Teresa Cayetana de Silva, duchessa d'Alba: una dama fiera, consapevole di avere il sangue più blu di Spagna, seconda solo alla regina per titoli e importanza dinastica. 
Erede di un'immensa fortuna, bella e stravagante, è, all'epoca, al centro di tutti i pettegolezzi: i benpensanti sussurrano scandalizzati dei suoi atti inconsulti di generosità, della sua passione per le corride (e i toreri) e della sua abitudine di frequentare, travestita da popolana, i quartieri più malfamati. 
Nel 1795, la duchessa ha trentatré anni, è sposata da tredici, ma non ha avuto figli. 
Goya, all'epoca, ha quasi cinquant'anni ed è appena stato nominato direttore del corso di pittura nell'Accademia Reale di Madrid. 
Reduce da una lunga malattia che lo ha reso completamente sordo, non ha esitato, non appena contattato dal Duca d'Alba, a prendersi l'impegno di eseguire i ritratti del Duca  e della moglie: accettare la commissione equivale per lui a confermarsi il ritrattista ufficiale dell'aristocrazia spagnola. 
Con il Duca instaura subito un rapporto di stima e di reciproco rispetto. 
E con la duchessa? 
Maria Teresa è una donna eccentrica e capricciosa, ma piena di charme, ben capace, se vuole, di affascinare un serio pittore di mezza età.  
Un giorno, racconta Goya, all'amico Martin Zapatero: "è entrata nello studio e ha voluto che le truccasi il viso. E- ammette- mi è piaciuto molto di più che dipingere una tela.." 
Non è necessaria troppa malizia per immaginare le sensazioni dell'artista nello stendere i suoi colori direttamente sul volto della donna, lo stesso volto altero che ha ritratto nel dipinto. 

Un anno dopo, la duchessa, rimasta vedova, si trasferisce, per il periodo del lutto a Sanlucar, sulle coste andaluse. 
Goya la raggiunge giusto il tempo per eseguire un altro ritratto: un olio su tela (cm 210x147), ora conservato a New York, The Hispanic Society of America.


Ed eccola qua: sempre in piedi, impettita e altezzosa, senza la minima traccia di un sorriso, su uno sfondo di sabbia dorata. 
Questa volta è abbigliata in nero, il colore del lutto, ma anche quello dell'abito delle majas, le donne del popolo. 
La mantiglia di merletto si confonde con la massa vaporosa dei riccioli neri e accentua il pallore del volto. 
Sotto l'abito e lo scialle di pizzo, spicca l'oro di una sottoveste e il rosso di un'alta fusciacca. 
Al dito, la Duchessa porta due anelli, dove sono incisi i nomi "Alba" e "Goya" e, anche qui, indica la scritta sulla sabbia: "Solo Goya". 
Lo sguardo rimane imperturbabile, come quello di una dea. 

Due ritratti, il volto di lei abbozzato nei fogli di un album, una singolare seduta di maquillage, due scritte sulla sabbia e due anelli con i nomi. 
Niente altro, ma è bastato per alimentare la leggenda di un amore tra l'orgogliosa gentildonna e il tormentato pittore.  
Un amore su cui sono stati scritti fiumi d'inchiostro.

E, invece....Macché amore! 
Tagliano corto le autrici di un libro dedicato a Goya e alla Duchessa d'Alba (qui è il link): le cose stanno in tutt'altro modo. 
Intanto - chiariscono subito- i dipinti in cui Goya ha ritratto la Duchessa, l'unica prova di una loro eventuale relazione sono solo questi due:  non c'è nessuna testimonianza che la sussiegosa gentildonna abbia fatto da modella anche per i celebri dipinti con la "Maja desnuda"(qui) e la "Maja vestida"(qui), ora al Prado, la cui sensualità aveva colorato di sfumature erotiche la fantasia di certi studiosi. 
E, poi, una lunga indagine sui documenti ha confermato che, nella corrispondenza della duchessa, non compare alcun accenno a Goya. 
Anzi, in una lettera scritta quando il pittore soggiornava a Sanlucar- nel periodo in cui, secondo i pettegoli, si sarebbe svolta la loro relazione- la gentildonna confida a un amico di essere distrutta e completamente assorbita dal dolore per la morte del marito. 
C'è da considerare, poi, che, all'epoca, la differenza sociale tra i due era incolmabile: la Duchessa, conscia del suo rango, non poteva considerare Goya come un possibile corteggiatore, ma lo vedeva solo come una persona al suo servizio, alla stessa stregua di un bibliotecario o un maggiordomo. 
Gli omaggi del pittore alla sua bellezza non erano che atti dovuti, come i versi celebrativi dei poeti di corte. 

Ma allora- potrebbero obbiettare i più romantici-  perché, nel ritratto in bianco, mostra così ostentatamente la dedica di Goya? 
Anche qui una spiegazione c’è: la duchessa non indicherebbe affatto il nome dell’innamorato, ma, più prosaicamente, il terreno, simbolo delle sue proprietà fondiarie, vaste come quelle del re.
Altri segni di potere- e non d’amore- sarebbero nel ritratto in nero, dove la mantiglia scura evidenzierebbe il suo stato di vedova e la fusciacca, simile a quella che indossano i capitani reali di reggimento, alluderebbe alle cariche militari della sua famiglia.

A questo punto, agli irriducibili non rimane che appigliarsi alla suggestione della scritta "solo Goya" 
Inutile! Controbattono, implacabili, le autrici del libro: nemmeno questa è una prova. 
Invece di una dichiarazione d'amore tracciata sulla sabbia, come in un flirt di adolescenti, la scritta potrebbe essere, piuttosto, l'affermazione orgogliosa del pittore che "solo Goya" è all'altezza di dipingere un simile modello. 
Che altro dire? Se, davvero, è così, il mito si sfalda e la ragione, come spesso succede, vince sul sentimento.

Chi ancora si rifiuta di arrendersi può sempre procurarsi la copia di un vecchio film come la "Maja desnuda"(qui), dove, tra gelosie e vendette, un ardente Goya interpretato da Tony Franciosa si strugge d’amore per una duchessa d’Alba dalla conturbante bellezza di Ava Gardner. 
E, con buona pace dei documenti d'archivio, lasciarsi semplicemente andare al sogno.







domenica 3 maggio 2015

Impressioni al femminile: Eva Gonzales, l'allieva di Manet



Il "Risveglio del mattino": in una tela del 1876 (cm 82x100), ora alla Kunsthalle di Brema, l'atmosfera di una calda intimità è resa attraverso le sfumature di bianco, i toni neutri del fondo e il vivace tocco di viola del vaso di fiori sul comodino.


"La modista", un pastello su tela del 1877, ora al Chicago Art Institut. 
Vestita di un abito alla moda, guarnito di nastri e di pizzi, la giovane sta scegliendo un accessorio in una scatola di cartone, ma il suo sguardo, attento e curioso, è attratto da qualcosa che si svolge al di là della tela. 
Un piccolo gesto che, da solo, suggerisce un racconto. 


Dipinti raffinati, colori sfumati, morbide atmosfere: sono queste le caratteristiche di un'artista sensibile ed elegante, anche se la meno nota delle pittrici legate al movimento impressionista, Eva Gonzales (1849-1883). 
Eppure, Eva è stata una delle allieve predilette del grande Édouard Manet, addirittura troppo prediletta, a dare retta alla gelosia di Berthe Morisot, la pittrice che frequentava, nello stesso periodo, l'atelier dell'artista. 
Nata in una famiglia dell'alta borghesia intellettuale di origine spagnola (il padre è scrittore e presidente della Societé des gens de lettres, la madre musicista) è abituata a vivere in una società colta e raffinata. 
La sua passione più grande, fin da giovanissima, è il disegno e ha cominciato col prendere lezioni in un corso di pittura riservato a ragazze di buona famiglia. 
La sua è una vera vocazione: sa bene quello che vuole ed è talmente curiosa e informata su quello che succede intorno, che, ad appena vent'anni, riesce ad entrare nello studio di un pittore, allora controverso, come Manet, di cui riconosce, per tempo, il fascino e la grandezza. 
Probabilmente, per la sua educazione e le sue salde convinzioni religiose, si sente un pesce fuor d'acqua in quel mondo un po' bohémien, di modelle dalla dubbia reputazione, caffè fumosi e discussioni condite di battute fulminanti, ma sente che è lì che si sperimenta un nuovo modo di fare pittura ed è lì che vuole restare. 
Timida e riservata, dalla bellezza un po' languida, con i lunghi capelli neri e la pelle chiarissima, è riuscita a catturare l'attenzione di Manet. 
L'artista, sempre sensibile al fascino delle belle ragazze, ne dipinge il ritratto con sedute di posa che i soliti maligni, giudicano decisamente interessate. 
Ma, in realtà, Manet apprezza, ancora più dello charme di Eva, le sue qualità artistiche. 
Lei ne è lusingata e, soprattutto, è contenta di aver scoperto con lui la possibilità di vivere immersa nella pittura, trovando i suoi soggetti ovunque e trasformando, in pennellate e colori, tutto quello che vede, passando dai ritratti, ai dipinti di interni, ai più umili soggetti del quotidiano. 
E, soprattutto, interpretando, con una grazia e un garbo particolari, quella grande libertà di espressione, basata su giochi di luce e velocità di tocco, tipica del movimento impressionista. 
Nel 1870 espone al suo primo Salon, dove attira l'attenzione dei critici d'arte- Émile Zola in testa- pronti a elogiare le sue tinte fresche e diafane e le sottili sfumature della tecnica del pastello, che, ormai, adotta sempre più spesso. 

In una tela, ora in collezione privata, basta un vaso di rose a darle la possibilità di giocare, tono su tono, sul bianco dei fiori e della tovaglia e sulla trasparenza del vetro, fino a farne una composizione di silenziosa poesia. 


Oppure, in questa tela, anch'essa in collezione privata, sono sufficienti un paio di scarpette da ballo, una rosa e dei guanti posati a terra su un tappeto per raccontare una piccola storia. 


Eva non trascura nemmeno di dipingere quei soggetti moderni, allora, di rigore all'interno del movimento impressionista. 
Nella grande tela (cm 98 x 130) col "Palco a teatro" del 1874, riprende un tema diffuso, ma riesce, comunque, a offrire l'omaggio più sentito al suo maestro, nei toni scuri dello sfondo che contrastano con le figure in primo piano e nel mazzetto di fiori, posato sul bordo del palco, che cita alla lettera quello dell'"Olympia". 


Quando sceglie i suoi soggetti preferisce, però, non ritrarre feste o serate eleganti, ma restituire la vita quotidiana delle donne, anche le più comuni, quelle che rischiano di passare inosservate.
Come in questa tela del 1877-78, ora alla National Gallery di Washington, dove la protagonista non è una dama alla moda, ma una dignitosa, nanny, una di quelle bambinaie inglesi di rigore nelle famiglie di alta condizione. 


Oppure, lontano dagli ambienti mondani frequentati dai colleghi, si dedica sempre più spesso a scene di interni domestici con donne colte in momenti privati, come in questa "Toeletta del mattino", dove l'erotismo e la sensualità di analoghi dipinti, cedono il posto a una sensazione di riservatezza e di riserbo. 



Lo stesso riserbo domina nei ritratti dei suoi familiari, come in questo straordinario "Ritratto della madre", dove evita ogni leziosità e ogni sentimentalismo, grazie all'estrema sobrietà della composizione: una sinfonia di beige, in cui spicca il nero della veste, mentre lo sfondo sembra scomporsi in un puro gioco di linee.



Nel corso della sua vita Eva Gonzales non si allontana mai troppo dall'ambiente legato al suo maestro. 
Quando si sposa lo fa con un incisore, Henri Guérard, conosciuto nel piccolo gruppo esclusivo che i più definiscono "la bande á Manet". 
Ma, in silenzio e quasi in punta di piedi, prosegue, con ostinazione, una sua ricerca personale e- senza mai mettersi in mostra, teorizzando le sue idee sull'arte- avanza risolutamente nel suo percorso. 
Fino ad arrivare, in questo dipinto del 1882 intitolato "Nel Giardino"ora in collezione privata, dove raffigura la sorella Jeanne, a diluire le forme, al punto che il disegno quasi scompare e sono solo le macchie di colore a fare emergere la silhouette della donna da uno sfondo indeterminato. 



Una pittura libera e coraggiosa.
Sarà il suo ultimo dipinto: Eva scompare a trentaquattro anni, con la stessa discrezione, con cui è vissuta, lieve come un sospiro 
Muore nel 1883, una settimana appena dopo il funerale di Manet, debilitata dal parto recente: i più romantici diffonderanno la notizia che si sia sfinita nello sforzo di intrecciare una ghirlanda di fiori da portare come ultimo omaggio alla tomba del suo maestro.







venerdì 1 maggio 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: maggio




Siamo arrivati già al quinto mese dell’anno: maggio, il re dei mesi, il periodo in cui le giornate si allungano e profumano di rose, il momento dell'anno solitamente dedicato alla poesia e all'amore.
Proprio in questo mese, nella tradizione medioevale e rinascimentale, allegre brigate di giovani, incoronati di foglie e di fiori, percorrono le vie delle città e delle campagne "cantando maggio".
Nelle corti del Nord Europa che, tra tardo-gotico e primo Rinascimento, dettano legge in fatto di moda il verde ("le gai vert" descritto, negli inventari francesi per le vesti delle dame più raffinate) è il colore tipico del mese.
Il verde delle chiome frondose degli alberi predomina anche nell’Arazzo di Maggio (cm 475x496) del Ciclo dei Mesi, commissionato agli inizi del Cinquecento da Gian Giacomo Trivulzio, eseguito dalla manifattura di Vigevano, su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530) e ora conservato al Castello Sforzesco di Milano.


Come al solito, la scena è inquadrata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle nobili famiglie ad essi imparentate, mentre in alto, al centro, spicca il grande stemma sovrastato dal motto dei Trivulzio, con ai lati, le rappresentazioni del Sole e dei Gemelli, segno zodiacale del mese.
Nella targa in basso, un’iscrizione, in lettere capitali, descrive le qualità di Maggio: "Spe replet annum floribuis/ cadentibusque suggerit/ fructus decorum et utile/ Maius fovet veris poni: Maggio colma la speranza per il raccolto dell’anno, fa seguire i frutti ai fiori cadenti e fa in modo di rendere utile la bellezza della primavera".
Sullo sfondo di un padiglione ottagonale aperto e sorretto da colonne, Maggio è rappresentato come un giovane re guerriero vestito di un mantello e una corazza, con tanto di scettro e di corona: tiene, nella mano sinistra, un fascio di rami di albicocco carico di frutti e poggia il piede destro sul globo terrestre.
Illuminato dalla luce calda del sole, un gruppo di figure vestite all'antica si affolla in primo piano: due uomini sorreggono i grandi rami pieni di foglie che richiamano le feste del Calendimaggio.
Altri contadini avanzano, a sinistra, con falci sorrette da lunghi manici e protette da foderi, che alludono all'attività agricola tipica del mese: il taglio del primo fieno nei campi della pianura, il cosiddetto maggengo. 
A destra, invece, altri contadini portano rastrelli e forconi, mentre, in basso, sul terreno, è disposta ordinatamente tutta una serie di attrezzi agricoli.

A destra e a sinistra del gradino del piedistallo, due giovani paggi tengono tra le mani rami di ciliegio, mentre un vassoio ricolmo degli stessi frutti è posato a terra tra di loro.
La raccolta delle ciliegie è raffigurata anche nello sfondo, verdeggiante di alberi, con i contadini che si arrampicano su alte scale per meglio coglierne i frutti.
In tutto questo affaccendarsi, in cui gli elementi della festa si mescolano alle attività agricole del mese, si percepisce la stessa lieta atmosfera che, probabilmente, si avvertiva, all'epoca, in città e in campagna, quando il pieno rigoglio della primavera allontanava gli spettri del freddo e della fame e  cortei di giovani eleganti cavalcavano cavalli bardati di verde, cantando e recitando poesie. 

E chissà che qualcuno, anche allora, non abbia ripetuto gli stessi gioiosi versi di Agnolo Poliziano, che tuttora vengono alla mente per celebrare l'inizio del mese "Ben venga maggio/ e il gonfalon sevaggio./ Ben venga Primavera/ che vuol che l’uomo si innamori…".







Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I mesi del Bramantino, ed.Officina Libraria 2012.