domenica 13 settembre 2015

Il "Ritratto di Van Gogh" di Henri Toulouse-Lautrec



Se è vero che tutti i ritratti raccontano una storia, quella che racconta il "Ritratto di Van Gogh" (pastello su carta, 54x45), ora al Museo Van Gogh di Amsterdam, realizzato da Henri Toulouse-Lautrec nel 1887, è, soprattutto, una storia di amicizia. Una bella amicizia.



Quando i due artisti si incontrano nel 1886 nello studio del pittore Fernand Cormon, uno ha ventidue anni e l'altro trentatré. 
Il più giovane, Henri Toulouse-Lautrec è un aristocratico, discendente da una delle più antiche famiglie di Francia. A Parigi, dove è arrivato da tempo e dove ha frequentato le scuole migliori, ha trovato conferma alla sua vocazione per la pittura. 
Della carriera militare che il padre aveva sognato per lui, non se ne è fatto di nulla.
Una malattia congenita, con l'aggravante di una caduta da cavallo, gli ha causato una vera e propria deformità fisica: il busto è normale, ma le gambe sono rimaste quelle di un bambino.
"È così piccolo che dà le vertigini":- è la battuta che circola tra i più maligni. 
Ma lui alle battute ci è abituato e riesce a non mostrarsi ferito: cerca di rimanere imperturbabile - sempre elegante nei modi  come nel vestire - e di rispondere con un'ironia feroce che arriva fino al sarcasmo.
Fernand Cormon non ha molta fiducia nelle sue doti: va dicendo a tutti che può diventare  un buon disegnatore o un caricaturista, ma non un artista con la A maiuscola.
Toulouse-Lautrec, comunque, è sicuro di quello che vuole e prosegue caparbiamente per la sua strada.

Anche Vincent Van Gogh, che frequenta l'atelier di Cormon per approfondire lo studio del nudo e dell'anatomia, è convinto che la pittura sia la sua vita. 
Dopo aver provato vari mestieri e dopo aver cercato di realizzare la sua vocazione religiosa facendo il predicatore, si è persuaso che solo nella pittura potrà trovare una pausa alle sue inquietudini e realizzare tutte le sue aspirazioni. 
È arrivato a Parigi nel marzo 1886 ed è ospite del fratello Theo, che, come sempre, gli passa un piccolo sussidio, con cui riesce, bene o male a sopravvivere.
Parla bene francese, anche se non ha perso la pronuncia gutturale del suo olandese originario, ma non ha certo la finezza d'espressione, né lo spirito di Lautrec. 
In genere è piuttosto silenzioso, quasi scontroso. Di vestire bene e di frequentare il gran mondo non gli interessa: vuole solo esercitarsi, imparare e capire fin dove può arrivare.

due, apparentemente, non potrebbero essere più diversi.
E, invece, qualcosa li unisce: oltre all'amore inesauribile per la pittura, condividono la stessa sofferenza, l'uno per la sua fragilitá fisica, l'altro per quella mentale, che, come una ferita aperta, li isola dagli altri e li condanna alla solitudine. 
Fin dall'inizio si sono capiti e sanno che, quando sono insieme, non hanno bisogno di parlare di se stessi.
I discorsi che condividono sono quelli sull'arte. E c'è da immaginare che le loro discussioni inizino nell'atelier di Cormon, per proseguire, fino a notte fonda, al tavolo di qualche caffè, magari di fronte a un bicchiere di assenzio. L'assenzio, la cosiddetta "fata verde", la bevanda che stordisce e che consola, è diventata per tutt'e due un'abitudine, di cui non riescono a fare a meno.

Ed è proprio con l'immancabile bicchiere d'assenzio che Lautrec ritrae l'amico, mentre, con  il viso smunto e i capelli rossi, perso tra i suoi pensieri, fissa un punto indistinto davanti a se, solo e chiuso nelle sue preoccupazioni.
Un'immagine malinconica e, allo stesso tempo, partecipe e affettuosa, per cui Lautrec ha adottato, in segno di omaggio, uno stile più vicino possibile a quello di Van Gogh.
Un'immagine, dove è riuscito a cogliere  tutta la profondità di una personalità tormentata e a fornire la testimonianza di una grande consonanza di emozioni e di sentimenti.
Del legame che traspare da questo ritratto non restano documenti scritti. 
C'è, però, un episodio successivo che attesta quanto fosse forte.

Nel gennaio del 1890, per l'apertura del "Salon des XX" a Bruxelles, Theo è riuscito a far pervenire da Parigi  due dipinti del fratello. 
Quei quadri così violenti e tormentati più che emozionare, come Theo sperava, scandalizzano non solo il pubblico, ma anche gli artisti. 
Un pittore simbolista belga, all'epoca piuttosto noto, Henri De Greux, non appena li ha visti, ha cominciato a urlare che lui non accetterà mai di esporre i suoi dipinti insieme a quella pittura "esecrabile". 
Lo grida più volte e nessuno lo zittisce, nemmeno quando, durante il pranzo ufficiale prima dell'inaugurazione, minaccia di ritirare le sue opere; anzi, qualcuno comincia perfino a dargli ragione. 
"Esecrabile" è una parola troppo forte da sopportare per Toulouse Lautrec, che là, seduto a quel tavolo, lo ascolta e probabilmente ripensa a quell'amico così fragile, alle loro discussioni notturne, alla sua fatica di dipingere, al suo impegno, alla voglia di dare in ogni sua opera qualcosa di sé. 
E, soprattutto, a quella pittura che ammira tanto e che per lui rappresenta un modello.
No, non lascerà che Van Gogh sia offeso. Le parole, però, proprio allora gli vengono meno.
A quel punto, tira fuori tutto il suo coraggio e sfida De Greux a duello.
È una decisione azzardata, ma è pronto a portarla fino in fondo. 
Quel duello non si farà, perché De Greux preferirà scusarsi, ma, intanto, Lautrec ha ottenuto lo scopo di far cessare gli insulti e di far sì che quella pittura strana e intensa riceva l'attenzione che si merita.

Non sappiamo quale sia stata la reazione di Van Gogh alla difesa di Lautrec; sappiamo però che i due si incontrano, ancora una volta, circa sei mesi dopo, il 6 luglio del 1890, quando Van Gogh passa per un giorno da Parigi per vedere il fratello. Vive, allora, a Auvers-sur-Oise, dove si è rifugiato dopo il periodo turbolento passato ad Arles e dove ancora alterna momenti di entusiasmo a crisi di depressione. 
Sarà l'ultima volta in cui si vedranno.
Pochi giorni dopo Van Gogh si toglierà la vita. 
Toulouse- Lautrec, invece, continuerà la sua. 
Sarà  pittore - e un grande pittore come aveva sempre voluto - ma sarà anche inseguito dai suoi fantasmi e dalla sua sofferenza, fino alla morte, nel 1901, ad appena trentasette anni.





martedì 1 settembre 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: settembre




Siamo già a settembre ed è arrivato il momento di vedere cosa ci riserva il mese nel calendario che ho deciso di "sfogliare" quest'anno: gli arazzi con il Ciclo dei mesi, attualmente conservati al Castello Sforzesco di Milano.
I dodici grandi arazzi furono commissionati, agli inizi del Cinquecento, dall'allora governatore di Milano Gian Giacomo Trivulzio ed eseguiti dalla manifattura di Vigevano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530).
Ecco, dunque, come appare, tessuto nei colori variopinti dell'arazzo, il mese di settembre di cinque secoli fa:


La scena, in gran parte danneggiata e restaurata, è inquadrata, come al solito, da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad essi imparentate ed è sormontata, al centro, dal grande stemma dei Trivulzio. 
A sinistra, compare la raffigurazione del Sole, mentre a destra, i segni zodiacali del mese, Scorpione (al posto della Vergine) e Bilancia, sono fusi in un'unica rappresentazione.
Come negli altri arazzi del ciclo, al centro in basso, nella parte anteriore del basamento, si legge un'iscrizione che descrive le caratteristiche del mese: "September uvas ut coquit/vina et parat dat aucuopi/ gratas voluptates bona/ et mensium recolligit: settembre, come fa maturare le uva, così prepara anche i vini, dà all'uccellatore  gradite soddisfazioni e raccoglie i buoni frutti di mesi”.

In un'epoca ancora legata ai tempi e ai ritmi delle attività agricole, il protagonista del mese non può essere che il vino.
In effetti, la personificazione di Settembre come un giovane nudo con i sandali rossi, grappoli d’uva in testa e i fianchi cinti da un ramo di vite  richiama le antiche rappresentazioni del dio Bacco.
Non bastasse, tutta la scena è dominata, da un gigantesco torchio vinario di legno, lo strumento indispensabile per la spremitura dell'uva, che, nell'interpretazione di Bramantino, diventa un'enorme struttura architettonica collocata in una sorta di piazza con un pavimento a scacchi variopinti.
Al centro, la grande vite del torchio è fatta ruotare da quattro improbabili contadini vestiti con corte tuniche all'antica. 

Anche in secondo piano sono rappresentate attività legate alla produzione del vino. 
L'uva arriva, a sinistra, caricata su un carro guidato da buoi ed è fatta defluire, attraverso uno scivolo, dentro una grande vasca. 
destra, alcuni giovani, sporchi del rosso del mosto, si occupano della pigiatura del vino e delle botti. 

Alle due estremità, invece, sono seduti una donna e un uomo in abiti signorili: lei tiene in mano un grappolo d'uva, mentre lui regge un falco addestrato per la caccia.
Anche se l'arazzo è rovinato e  alterato, proprio nella figura maschile, l'ipotesi è che si tratti del committente della serie, Gian Giacomo Trivulzio e della moglie Beatrice d'Avalos.
All'epoca, in effetti, non è raro, che i nobili signori assistano a una delle occupazioni agricole   più importanti dell'anno.
La vendemmia e la pigiatura del mosto coinvolgono tutti e, generalmente, finiscono con una delle poche feste, in cui i contadini possono riposare dalla fatica quotidiana e rallegrarsi che il vino nuovo possa essere un segno di abbondanza e di prosperità.







Un approfondimento delle vicende storiche  e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina libraria 2012