domenica 28 dicembre 2014

Tra miti e stelle: la volta celeste della Sala del Mappamondo di Palazzo Farnese





Oroscopi, almanacchi, calendari, lunari: non si parla mai tanto di stelle come in questi giorni. 
E, allora, perché non rivestire il blog dei colori del cielo stellato, con l'immagine del soffitto della Sala del Mappamondo in Palazzo Farnese a Caprarola, in cui sono raffigurati lo zodiaco e le costellazioni dell'emisfero boreale durante il solstizio d'inverno.


Siamo all'interno del Palazzo nell'ultima sala del cosiddetto Appartamento d’inverno, al piano nobile.
Voluto come residenza estiva dal Cardinale Alessandro Farnese, il palazzo fu progettato dall'architetto Jacopo Barozzi da Vignola che dispiegò tutta la sua abilità per farne una delle dimore più belle del tempo. 
Una grande scala elicoidale, cortili interni, terrazzi, un appartamento estivo e uno invernale, un magnifico giardino: tutto è pensato per soddisfare il gusto raffinato del "grande cardinale" (qui è un link sulla storia del palazzo).
Sala dopo sala, i più illustri esponenti della pittura dell'epoca (da Taddeo a Federico Zuccari, al Bertoja o a Raffaellino da Reggio), sotto la guida di colti letterati riempiono le pareti di affreschi, in cui storia, mitologia e perfino sacre scritture sono utilizzate per esaltare la gloria della famiglia.
Fino ad arrivare alla sala del Mappamondo, dove, alle pareti, sono raffigurati, il planisfero e i quattro continenti allora conosciuti. 
Qui, il giglio, emblema araldico dei Farnese, campeggia al centro dell'ovale di stucco che racchiude il dipinto.

Lo sfondo di un blu lapislazzuli che ricorda i cieli degli affreschi medioevali  è punteggiato di stelle dorate e popolato dalle figure mitologiche associate allo zodiaco e alle cinquanta costellazioni già note all'epoca. 
Ma qui non si tratta soltanto di una rappresentazione allegorica. 
Anzi, si è fatto ricorso a tutte le più aggiornate conoscenze astronomiche per raffigurare una mappa celeste più precisa possibile, dove le stelle sono accuratamente posizionate in relazione alle linee che compaiono in bella vista e che rappresentano la proiezione in piano delle coordinate celesti, come l'Equatore, l'Eclittica, i Tropici o i Coluri, fondamentali per orientarsi nel cielo e stabilire la collocazione degli astri.
L’artista che, tra il 1573 e il 1575, esegue questa complessa rappresentazione non è stato ancora identificato con certezza: gli studiosi hanno proposto i nomi di Giovanni de’ Vecchi, oppure di Giovanni Antonio da Varese detto il Venosino, autore dell’analoga Volta celeste  collocata nella Sala Bologna in Vaticano e commissionata da Gregorio XIII. 
In ogni caso, per realizzare una simile raffigurazione, non bastano certamente le sole conoscenze di un pittore. A fornire tutto il progetto iconografico sono il coltissimo astronomo Orazio Trigini de'Mari e Fulvio Orsini, l’erudito bibliotecario e antiquario al servizio del cardinal Farnese. 
Sono loro che trovano negli antichi testi di astronomia le citazioni più opportune per ricostruire nel soffitto l'intera volta celeste.

Alla fantasia dell’artista non resta che sbizzarrirsi nei particolari, come la grande nave di Argo che solca il mare ai confini dell'affresco, il candido Cigno, lo scattante Centauro o i corpi goffi e robusti delle due orse che personificano le costellazioni.


Gli illustri visitatori del Cardinale possono divertirsi a far sfoggio di cultura, controllando l’esatta posizione degli astri, oppure riconoscendo, tra le figure celesti, personaggi come Antinoo, il bellissimo giovane amato dall'imperatore Adriano e trasformato, dopo la morte, in un dio, oppure l'arrogante Fetonte che precipita nell'Eridano con i cavalli imbizzarriti del carro del Sole. 
E possono sfidarsi a scoprire dove sia l'ara su cui Zeus compie il più antico dei sacrifici per assicurarsi la vittoria nello scontro con Crono e dal cui rogo fumante nasce la Via Lattea, che percorre tutto l’affresco come una bianca spirale di fumo.
Lungo la sua candida scia si dispongono tutte le figure grandi e piccole che popolano quel cielo eternamente azzurro, raccontando ciascuna la propria storia e rievocando antichi miti. 
Mentre le costellazioni più lontane della galassia si trasformano nei punti dorati che splendono luminosi sullo sfondo.
Astronomia e astrologia si mescolano, remote leggende prendono vita. 
Quale immagine potrebbe essere più adatta per augurare un felice anno nuovo sotto la protezione degli astri? 
E allora buon anno e giorni sereni a tutti!  






Chi vuole approfondire troverà qui il link a un bell'articolo che  ripercorre le vicende della storia e dell'iconografia del dipinto. Qui invece è un video per scoprirne tutti i dettagli 
Per chi volesse visitare il bellissimo Palazzo Farnese a Caprarola, le date e gli orari d’apertura sono qui)



sabato 20 dicembre 2014

L'"Adorazione del Bambino" di Paolo Uccello nella chiesa di san Martino a Bologna




La scena notturna di un presepe, racchiusa da una cornice dipinta a punte di diamante, in un affresco staccato, di più di due metri per tre, attualmente collocato nella prima cappella a sinistra della chiesa di San Martino a Bologna:



Un dipinto, particolarmente adatto a questi giorni pre-natalizi non solo per il soggetto, ma anche perché la sua scoperta ha l'aria di un piccolo prodigio. 
Sì, perché questo affresco, di cui nessun testo riportava l'esistenza e che non figurava in nessun documento, è ricomparso all'improvviso, come un'apparizione. 
C'è da immaginarsi la sorpresa degli operai che lavorano nella sagrestia di san Martino, quando, nel 1977, una caduta dell’intonaco lascia intravedere la figura di un Gesù Bambino. 
Si capisce subito che intorno a quella figura c'è dell'altro e si decide immediatamente di rimuovere l’intonaco che copre il resto dell'affresco: il lavoro di restauro è lungo, ma, alla fine, si riesce a riportare alla luce l'intero dipinto. 
Anche se i danni sono irreparabili e una parte dell'affresco è perduta, quello che rimane lascia tutti stupefatti e si rivela di una qualità talmente alta che un grande studioso come Carlo Volpe può attribuirlo, con sicurezza, a uno dei protagonisti della pittura del Quattrocento, Paolo Uccello (1397-1475).


In basso, al centro, un Gesù Bambino, robusto come un piccolo Ercole, tiene nella mano destra una sfera con l’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, i simboli tradizionali dell’eternità di Dio.
Lo vegliano un bue dal massiccio corpo geometrico e un asinello legato al palo da una corda.
A destra, si intravede, a mala pena, San Giuseppe, mentre la Madonna inginocchiata prega con le mani giunte. 
Dietro di loro, un muro semidistrutto allude al crollo del paganesimo e al superamento della cultura antica.
A sinistra, sono raffigurati i committenti, probabilmente dei notabili, forse dei magistrati, come farebbe pensare il fatto che indossano la guarnacca, il lungo abito rosso foderato di pelliccia, tradizionalmente riservato ai giudici e ai notai.

Il tetto della capanna, in cui è ambientata la scena, è sorretto da un tronco d’albero non lavorato che sembra quasi nascere dal corpo del Bambino, e che si incrocia con una delle due travi a formare una croce, un simbolo che prefigura la futura Passione di Cristo. 



In alto, sullo sfondo di un cielo nero, illuminato a mala pena da una sottile falce di luna, tre personaggi, in abito quattrocentesco, i tre Magi, sono così assorti nella loro discussione da non accorgersi di quello che succede. 
Solo uno indica verso l’alto, ma la cometa, che forse era raffigurata nella parte mancante dell'affresco, non è così splendente da rischiarare il cielo.

Tutta la scena è di una tale essenzialità che all'epoca- sull'intonaco è incisa una data che è stata letta come 1431 o 1437- probabilmente rappresenta un vero choc per gli spettatori bolognesi, abituati agli scintillii dei fondi oro, ai dettagli lussuosi e alla ricchezza dei polittici collocati sugli altari delle chiese.
I più aggiornati vi avranno visto l'influenza delle novità elaborate a Firenze, anche se solo pochi avranno riconosciuto il nome del pittore. 
Tanto più che, anche nel panorama fiorentino, Paolo Uccello è un artista a parte (ne ho parlato qui)
Quando dipinge l'affresco bolognese, ha una quarantina d’anni ed è abituato a cercare lavoro fuori Firenze, dove è nato e dove ha avuto la sua prima formazione accanto a Lorenzo Ghiberti: è stato a Padova, a Venezia e ha finito da poco gli affreschi del Duomo di Prato. 
Insomma, ha lasciato la città negli anni cruciali, proprio quando trascorreva la folgorante meteora di Masaccio e cominciavano a fermentare le nuove idee che avrebbero cambiato il modo di fare pittura e di vedere il mondo. 
Pur rimanendo amico degli artisti della sua generazione, soprattutto di Donatello, è rimasto, una voce fuori dal coro, anche per colpa di quello che Vasari definisce il suo "ingegno sofistico e sottile" che lo porta ad appartarsi in solitarie elucubrazioni. 
Vasari, del resto, lo descrive come un originale, un uomo timido, introverso, amante degli animali, soprattutto gli uccelli (e da questo gli deriva il soprannome), ma con una passione ossessiva per quella prospettiva con più punti di fuga già teorizzata negli scritti medioevali e che diventerà il centro di tutte le sue ricerche artistiche

Così anche in questo affresco moltiplica i punti di vista e trasforma la scena in un'astratte costruzione di pure linee geometriche.
Il suo Presepe, di un estremo rigore intellettuale, senza alcuna concessione all'emozione o alla distrazione, invita piuttosto a una meditazione sul significato della nascita di quel Bambino che stringe tra le mani il segno dell’infinito.
Mentre i tre Magi che discutono tra di loro, persi nell'oscurità della notte e ancora ignari della cometa che farà loro da guida, sembrano riflettere, nella loro incertezza, la sua e le nostre inquietudini.







Una poesia di Edmond Rostand mi ricorda molto i Magi sperduti di Paolo Uccello:
LA STELLA
Perdettero la stella una sera; come è possibile perdere
La stella? Per averla troppo a lungo fissata.
I due re bianchi, ch’eran due sapienti di Caldea,
tracciarono al suolo dei cerchi, col bastone.
Si misero a calcolare, si grattarono il mento.
Ma la stella era svanita come svanisce un’idea,
e quegli uomini, la cui anima aveva sete d’essere guidata,
piansero innalzando le tende di cotone.
Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri,
si disse: ” Pensiamo alla sete che non è la nostra.
Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali”.

E mentre sosteneva il suo secchio per l’ansa,
nello specchio di cielo in cui bevevano i cammelli
egli vide la stella d’oro che danzava in silenzio.

sabato 13 dicembre 2014

Tra nebbia e sogno: la "Resurrezione" di Bastianino per la chiesa di san Paolo di Ferrara





"Egli non sa vedere che la notte, i crepuscoli e le apparizioni” (Francesco Arcangeli)

La “Resurrezione di Cristo", una delle tre grandi pale d'altare eseguite da Sebastiano Filippi detto il Bastianino (1532 ca-1602) per la chiesa di San Paolo a Ferrara:


Il Cristo risorto, circondato da un alone di luce dorata e da una gloria di angeli, si leva dal sepolcro, mentre i soldati, impauriti e attoniti, giacciono a terra, nell'ombra fitta che si addensa in basso.
Tutto sembra opaco e avvolto da una nebbia sottile che rende indistinti i contorni delle figure. 
Un dipinto di fronte a cui- per citare le parole di uno scrittore come Giuseppe Raimondi- si rimane colpiti da "tutto lo sconquasso che si osserva nella scena, un poco teatrale, un poco medianica e spiritistica... come un sogno visto da sveglio".

Siamo nella Ferrara degli anni '80 del Cinquecento. 
Sotto il Duca Alfonso II d'Este, la vita di corte continua nella magnificenza di sempre, tra spossanti battute di caccia, feste, musica, danze e gli spettacoli stupefacenti delle "Cavallerie". 
In Castello, è stata appena rinnovata la decorazione dell'Appartamento detto dello specchio. 
Agli affreschi sfrenati e scherzosi, ha collaborato lo stesso Bastianino, con quei "belli ignudi e pargoletti amori”, celebrati nei versi del poeta di corte, Torquato Tasso.
Alfonso II sembra interessarsi solo a questioni di etichetta e di protocollo, impegnato com'è nella disputa sulle "precedenze", una stremante quanto inutile contesa sui titoli di nobiltà che lo oppone alla famiglia dei Medici
Ma, dietro questa apparenza brillante e un po' fatua, cova dappertutto l'inquietudine
Nel 1570 un gravissimo terremoto ha colpito la città, le casse del Duca sono vuote e la popolazione, già fiaccata da epidemie ricorrenti, è gravata da tasse sempre più esose. 
Ormai, nemmeno lo splendore della corte può nascondere la consapevolezza di essere alla fine di un'epoca. 
Il Duca, malgrado tre matrimoni, non riesce ad avere quel figlio maschio che salverebbe la signoria estense su Ferrara: come stabilito da un antico patto, in assenza di un erede legittimo, la città è destinata a ritornare sotto lo Stato della Chiesa.

È in quegli anni difficili che Bastianino, già maturo e affermato, lavora ai dipinti di san Paolo.  
Spettatori e committenti, abituati al pittore brioso degli affreschi, non capiscono fino in fondo lo stile nebbioso e appannato che adotta, ormai, in tutte le sue tele religiose e che, dopo la morte, lo condannerà a un lungo oblio. 
Ci vorrà un grande critico d'arte, Francesco Arcangeli, per riscoprirlo e per fornire, nella sua monografia del 1963, quell'interpretazione suggestiva e poetica che resterà fondamentale per tutti gli studi successivi. 
Per Arcangeli, la nebbia, il velo che copre e offusca i colori dei dipinti di Bastianino e che priva i corpi di ogni consistenza, non è affatto un espediente, o addirittura un difetto di esecuzione, frutto di quella "negligenza" che gli veniva spesso rimproverata. 
È, invece, l’espressione in pittura dell'incertezza e del disagio che suscita la sensazione della fine di un'epoca e della malinconia che accompagna il dorato tramonto della corte ferrarese.

Bastianino, con una sensibilità che lo avvicina alla poetica tormentata di Torquato Tasso non fa che rappresentare, nei suoi dipinti, la crisi della "Ferrara affascinante e triste ma dimentica di Alfonso II".
E il dissolversi delle sue immagini non è che il riflesso del dissolversi di quel mondo.

Nella "Resurrezione" non c'è alcun senso di trionfo, alcuna esaltazione. 
I colori fumosi e i contorni sfocati aboliscono ogni nitidezza di disegno.
Le influenze di artisti come Tiziano o come Michelangelo, conosciuto a Roma e considerato un modello di riferimento, sono rielaborate in uno stile, dove manca ogni drammatizzazione e dove ogni gesto è dilatato in un'atmosfera ovattata e pesante. 
Tanto che sembra che Cristo si liberi a fatica dai lacci della morte e "anziché balzare verso l’alto… si apra il passo fra gli inceppi molli dei dormienti come risucchiato da un lento maelstrom" (Arcangeli).
I corpi dei soldati caduti a terra, con i volti deformati o appena accennati, si smaterializzano e si confondono in una massa indistinta



Gli angeli che circondano Cristo, dipinti a piccoli veloci colpi di pennello sfumati con le dita, sono presenze evanescenti che si distinguono appena nel passaggio tra l'ombra e la luce


Tutto si trasforma in una visione. 
E le immagini svaniscono nell'indeterminatezza di un sogno.




Bastianino è il protagonista della mostra "Lampi sublimi a Ferrara. Tra Michelangelo e Tiziano. Bastianino e il cantiere di san Paolo", a cura di Anna Stanzani, che si terrà da oggi e fino al 15 marzo 2015 nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara






lunedì 8 dicembre 2014

I sogni nel cassetto: l"Hotel Eden" di Joseph Cornell




Sono giornate grigie queste, di umore e di pioggia: mi prende, ogni tanto, la voglia di evadere da un'atmosfera natalizia che sembra fatta solo di luminarie, di canzoni che parlano di neve e di renne e di una miriade di panettoni che affollano gli scaffali dei supermercati. 
Tra tutte le immagini che avevo in mente, ne scelgo perciò, una che suggerisce, in maniera del tutto particolare, sogni di viaggi e di fughe immaginarie: è l'"Hotel Eden", ora a Ottawa, alla National Gallery of Canada, opera di un grande artista, uno dei miei preferiti, Joseph Cornell.




Su uno sfondo di un bianco luminoso, un pappagallo variopinto, appollaiato su un ramo, regge col becco un sottile laccio nero, con cui sembra azionare una sorta di ventilatore. 
Accanto, in un vecchio e sciupato manifesto pubblicitario, si legge, a mala pena, il nome dell'hotel Eden. 
Tutto qui.
Una serie di oggetti raccolti e sistemati, intorno al 1945, in una delle sue piccole "scatole"- appena 38x12 centimetri- da Joseph Cornell (1903-1972). 
Ho già parlato qui di questo straordinario artista, solitario ed eccentrico, che passa la maggior parte dell'esistenza, chiuso, con la madre e il fratello invalido, nella sua casa in un quartiere periferico di New York.
Malgrado la sua vita appartata, non è affatto un isolato, anzi è al corrente delle ultime tendenze dell'arte contemporanea e in corrispondenza con gli esponenti più illustri delle avanguardie americane ed europee. 
Ma è, da sempre, anche un uomo indipendente, un "battitore libero", che, pur aderendo al movimento surrealista, ha scelto, fin dall'inizio, una strada che è solo sua. 
Le sue giornate, a partire dagli anni Quaranta, sono scandite da uno stesso ritmo: la mattina presto parte da casa con la metropolitana e scende al centro di Manhattan.
Là passa il tempo, vagando per le strade, rovistando nelle botteghe dei rigattieri, perlustrando depositi, magazzini o librerie di seconda mano. 
Acquista di tutto: libri, foto di quelle dive del cinema che adora da lontano, mappe, stampe, e, soprattutto, oggetti, un tempo preziosi ma ormai privi  di valore.
Un guazzabuglio di elementi che gli piace conservare in cartelle di cartone, divise per tema e catalogate con titoli come "Ragni", "Lune", oppure "Uccelli".
Quei materiali disparati sono la base delle sue creazioni. 
La sera, quando torna a casa, si mette al lavoro e li dispone- accostandoli liberamente- in piccole scatole di legno con un coperchio di vetro. 
Né dipinti, né sculture, le sue sono opere complesse che devono essere osservate piano piano, con attenzione e con delicatezza. 
Se si guarda bene ci si accorge che Cornell in quelle scatoline ricrea interi universi in miniatura, in cui rivela i suoi ricordi e i suoi desideri più nascosti.
Gli basta, per esempio, qualche paillette e un pezzo di tulle per ricordare un balletto.
Oppure, qualche bussola spaiata e una mappa della barriera corallina gli è sufficiente per evocare paesi lontani (sulle opere di Cornell, compresi i suoi film fatti di spezzoni di pellicole di serie B, qui e qui sono link a siti che ne parlano approfonditamente).


Le sue sono opere aperte, suggestioni visive che lasciano spazio a ogni sensazione, in completa libertà.
Così, in questo "Hotel Eden", qualcuno ha visto addirittura allusioni al paradiso terrestre o il simbolo di una rinascita simboleggiata dall'uovo visibile in alto. 
Oppure i più sofisticati hanno riconosciuto citazioni precise da un artista come Marcel Duchamp.
Ma, in realtà, poco valgono le interpretazioni, quello che importa sono le emozioni che Cornell sa suscitare dentro di noi, fin nel profondo.
Per me, per esempio, chiuso dentro questa scatolina, c'è tutto il desiderio di essere altrove. 
C'è la voglia di un'evasione, l'idea di un viaggio sognato più che vissuto, magari in un indistinto paese tropicale di un esotismo da cartolina, fatto di pappagalli colorati e di hotel dai nomi evocatori, che mi ricordano l'improbabile Sud America di una canzone di Paolo Conte.
Ma, quel che più conta è che questa colorata scatolina, fatta di immagini ritagliate e di oggetti sciupati dall'uso, è capace di suscitare la stessa commozione impalpabile e misteriosa di una poesia.






lunedì 1 dicembre 2014

Il Calendario di pietra: dicembre




"Dixe Dexembre: sono lo tale. Fazo ghiazare omne chanale. Uccido i porci e mettogli in sale, fazo sossicce d’ogni razone" (Ballata dei Mesi del XIV secolo)  


"Tempus fugit", il tempo fugge, dicevano i latini: il 2014 è passato come un soffio ed eccoci già arrivati a dicembre, il decimo mese secondo il calendario romano, da cui ha preso il nome, l'ultimo dell'anno secondo il nostro. 
Il mese delle feste natalizie, dei dolci, dei rubicondi Babbo Natale o delle neve.
Niente di tutto questo agli inizi del Duecento: nel Ciclo dei Mesi della Pieve di Santa Maria ad Arezzo dicembre è il mese in cui si ammazza il maiale. 
In un periodo in cui i porci vengono, per lo più, allevati nei boschi allo stato brado, la macellazione avviene al termine della stagione delle ghiande, quando il freddo dell'inverno assicura la migliore conservazione delle carni. 
"Uccido i porci e mettogli in sale, fazo sossicce d'ogni razone (faccio salsicce d'ogni tipo)": dice di sé il Dicembre della Ballata dei mesi.


Sullo sfondo di un porticato sorretto da tre esili colonnine, un giovane biondo sta uccidendo un maiale che tiene inchiodato al suolo, dopo averlo violentemente rovesciato. 
Il gesto è quello preciso di chi sa risparmiare inutili sofferenze, vibrando all'animale una stilettata dritta al cuore, dopo averne calcolato la posizione,  ripiegandogli sul petto una delle zampe anteriori. 
Si tratta, probabilmente, di uno di quei norcini, che all'epoca, soprattutto nella stagione invernale, girano nelle campagne e nelle città offrendo i loro servizi per la macellazione. 


I colori vivissimi che si sono conservati tuttora, accentuano il realismo della scena con particolari come la posa del giovane con il ginocchio piegato per darsi più forza, la sopraveste rialzata e le calzature pesanti, oppure la fascia bianca all'altezza dello costole del maiale, caratteristica della cosiddetta "cinta" senese, una razza diffusissima nella Toscana del tempo.
Una scena brutale, ma non di una violenza gratuita: l'uccisione del maiale rappresenta, allora, uno dei momenti essenziali dell'anno, una sorta di rito collettivo, quasi una festa, a cui partecipa, a volte, tutta una comunità. 
Il maiale è considerato un animale indispensabile per la sopravvivenza: la sua carne è di gran lunga la più consumata nelle case dei poveri come nei banchetti dei ricchi, tanto più che- come si usa dire ancora oggi- del porco non si butta via nulla. 
Tutto serve e tutti sono pronti a utilizzarlo, fino all'ultimo.


La scena di Dicembre può turbare gli spettatori di oggi, più delicati (o forse più ipocriti) o poco avvezzi alla rudezza della vita di campagna. 
Allora, chi la guardava non si scandalizzava, né si turbava, ma leggeva in quella uccisione solo la possibilità di sopravvivere fino ai raccolti della primavera. 
Magari, passando i giorni più freddi al calore del fuoco, mentre gli insaccati pendevano rassicuranti dal soffitto, come appare, nello stesso Ciclo, nella raffigurazione di Gennaio (qui).
Se tutto andrà come nel calendario di pietra- si poteva pensare- la brutta stagione potrà essere superata senza patire la fame. 
Poi, torneranno di nuovo i venti di marzo, i fiori di aprile, le feste e le cavalcate di maggio e arriveranno l'estate e l'autunno, la mietitura del grano e la vendemmia.

I secoli passano e di quei pensieri, quelle gioie, quelle paure e quelle speranze rimangono solo le immagini che ignoti scultori hanno consegnato all'eternità dell'arte.
Ancora una volta, un anno finisce e un altro sta per cominciare: il tempo e le stagioni continuano, ora come allora, il loro immutabile ciclo.






venerdì 28 novembre 2014

I fiori del paradiso di Séraphine de Senlis




Un albero fantastico, dove i colori sono accesi, le foglie splendenti come fiamme e dove- nella chioma lussureggiante- sembrano aprirsi occhi misteriosi.
È l’”Albero del Paradiso”, una tela di quasi due metri per uno, conservata in Francia al Museo di Senlis: 


Siamo intorno al 1930 e, quando dipinge questa  natura rigogliosa, Séraphine Louis, nota come Séraphine de Senlis (1884-1942), ha passato da un po' la quarantina e ha dietro di sé una vita che sembra un romanzo. 
Orfana, è entrata a servizio fin da bambina, passando da una famiglia all'altra e poi, per vent'anni, ha fatto la domestica in un convento. 
Da poco, si è trasferita a Senlis, una cittadina non lontana da Parigi.
Massiccia, sgraziata, sempre silenziosa, non si trova  a suo agio con la gente e ha pochi contatti con gli altri. 
È lenta nel capire, parla poco e male: una povera mentecatta la definiscono i più crudeli. 
Nei suoi pochi momenti liberi, passeggia nei campi, con un cappello di feltro e uno scialle scuro: qualcuno dice di averla vista abbracciare gli alberi, accarezzare l’erba e parlare con i fiori. 
Porta sempre con sé un ombrello e un paniere in cui tiene nascosta una bottiglia di vino. 
Per il resto, conduce la  vita  degli "invisibili", lavorando per pochi centesimi all'ora non come una cameriera con tanto di grembiule e crestina, ma come una serva tuttofare, a cui si affidano i compiti più ingrati  e faticosi: pulire i pavimenti, incerare i mobili o lavare la biancheria. 
Lei li definisce i suoi "lavori neri”. 
I "lavori colorati", invece, sono quelli che fa di notte, nella sua stanzetta, al lume di una lampada a olio: lì, china per terra, dipinge fino allo sfinimento, con i pennelli e con le dita, su piccole tavolette recuperate qua e là e, intanto, canta le lodi della Madonna o mormora litanie sacre. 
Religiosissima, considera i suoi quadri come preghiere, in cui  rende omaggio a Dio, raffigurando quello che ama di più: gli  alberi, i cespugli, i fiori selvatici o la frutta che cresce nei campi. 
Nei suoi dipinti non ci sono mai edifici, né oggetti, né presenze umane o animali. 
Solo tripudi di fiori e di foglie che invadono tutto lo spazio con le loro tinte accese, come in queste "Foglie rosse", ora al Museo di Senlis: 


Entrando nella grande cattedrale di Senlis, è rimasta colpita dai colori smaglianti delle vetrate. 
Sono quelle le tinte che vorrebbe nei suoi dipinti, ma non ha soldi per comprarsele. Allora decide di fabbricarle da sola: con astrusi procedimenti estrae  succhi colorati dalle piante e dalle bacche e li mescola con il sangue che raccoglie nella macelleria, con le terre dei boschi, con l'argilla degli stagni o con l'olio che sottrae dai lumini della chiesa. 
E mantiene gelosamente il segreto su quelle strane misture che danno ai suoi dipinti un effetto lucido come di smalti. 

A Senlis, i più la guardano con un misto di pietà e di disprezzo e giudicano le sue pitture come stranezze di una squilibrata. 
Qualcosa cambia, quando, nel 1912, si stabilisce, in città un raffinato critico e collezionista tedesco, Wilhelm Uhde, amico ed estimatore di artisti come Picasso, Braque, Rousseau o Marie Laurencin.  
Séraphine  va  a casa sua tutte le mattine per fare i lavori pesanti. Per lui non è che una domestica qualsiasi, quando, per caso, scopre i suoi dipinti colorati e stravaganti. 
È una folgorazione: per lui quella donna silenziosa ha un vero talento e i suoi dipinti sono opere d'arte. Tanto che fa di Séraphine la protagonista del libro che sta scrivendo sui pittori autodidatti, o, come preferisce definirli, "primitivi moderni"
È un incontro, quello tra Uhde e Séraphine, che segna la loro vita. Apparentemente lontani, sono in realtà molto  simili. 
Tutt'e due sono soli: lei con le sue visioni religiose e la sua incapacità di comunicare con il mondo; lui, omosessuale, con la sua  vita appartata e il suo timore di affrontare il giudizio degli altri.
Con la prima guerra, Uhde, cittadino tedesco, è costretto a lasciare la Francia e Séraphine torna ai suoi "lavori neri". 
Solo qualche anno dopo, Uhde potrà rientrare a Senlis e riprendere i contatti.
Finalmente Séraphine, contenta di essere apprezzata come artista, inizia a dipingere a cavalletto tele sempre più grandi. 
Dipinti di due metri con  alberi che sembrano nascere dalle sue visioni mistiche, come questo "Albero della vita", ora al museo di Senlis: 


Oppure come questo "Mazzo di foglie che sembrano piume di bizzarri uccelli (ora in collezione Dina Viery): 


O queste straordinarie "Margherite bianche" del Museo di Senlis:  


Con i soldi che riceve, Séraphine affitta un piccolo appartamento e compra oggetti che a lei, poverissima, sembrano il simbolo stesso del lusso: qualche tappeto, tovaglie ricamate, un po' argenteria. Si direbbe che sia  finalmente serena. 
Ma nel 1929, la crisi economica colpisce anche Udhe che, sommerso di debiti, non è più in grado di darle altro denaro. Per lei è un colpo durissimo: comincia a dubitare di sé e della sua arte. 
Il suo fragile equilibrio si infrange. Sempre più ossessionata dalle sue voci interiori e dalle sue manie di persecuzione, non mangia più per timore di essere avvelenata, vaga per le strade annunciando la fine del mondo, canta salmi per notti intere. 
Alla fine, qualcuno, esasperato, chiama la polizia. 
A quel punto- siamo nel 1932- appare inevitabile internarla in un manicomio. 
Da allora in poi, non dipingerà più.  
"La pittura è scomparsa nella notte... non si fa arte in questi posti": scrive in una lettera.  

Dopo la seconda guerra, nel 1945, Udhe, che, finché ha potuto, si è tenuto in contatto con lei, organizza a Parigi quella  mostra personale che Séraphine aveva sempre desiderato. 
Ora non è più considerata una povera pazza: i suoi quadri piacciono ed emozionano. I visitatori ne sono entusiasti.
Ma ormai è troppo tardi. 
In una sera del durissimo inverno del 1942, nella Francia occupata, Séraphine è morta in manicomio di fame e di stenti ed è stata sepolta in una fossa comune. Proprio lei che aveva lasciato scritto di sognare "un funerale di prima classe con tutti i signori in lutto, la messa e la musica".
E che avrebbe voluto fosse inciso sulla sua lapide "Qui riposa Séraphine Louis, senza rivali, in attesa della sua felice resurrezione"







"Séraphine"', il bellissimo film di Martin Prevost del 2009 (qui), è il modo migliore di conoscerla e di amarla.




sabato 22 novembre 2014

Il mondo sottosopra: le fotografie di Philippe Ramette




Un uomo, in un elegante abito scuro, cammina sul tronco di un albero in una bella giornata d'autunno:


Lo stesso distinto personaggio, con la sua impeccabile giacca doppiopetto, solca il mare nei pressi della riva, mentre tutto intorno è sottosopra:


Poi, con un'invidiabile compostezza, levita a mezz'aria nel parco di una villa:


Oppure, senza mostrare il minimo timore, cammina sulla parete di un salotto:


Impassibile e ben vestito, sfida non solo ogni legge di natura, ma anche il più comune buon senso.
Gli manca solo la bombetta per apparire come uno di quei surreali ometti che popolano i quadri di René Magritte.
Ma qui non siamo nell'universo fittizio della pittura: qui è tutto vero e quell'uomo che, nelle situazioni più improbabili, conserva la stessa flemma di un attore del cinema muto come Buster Keaton, è l'artista francese Philippe Ramette (qui).
Nato nel 1961, disegnatore, scultore e fotografo, vive e lavora a Parigi. È lui che, qualche anno fa, ha avuto l'idea di giocare con se stesso e con la realtà, abolendo- per il tempo breve di uno scatto fotografico- le leggi fisica e della gravità.

Perché le sue foto non sono affatto- come si potrebbe pensare- frutto di un fotomontaggio o create con un raffinato programma al computer.
Qui, come direbbe un prestigiatore: "non c'è trucco e non c'è inganno" (almeno digitale).
"Sicuramente si potrebbe fare una manipolazione a computer- afferma Ramette- ma quello che mi interessa, invece, è il paradosso, è cercare di razionalizzare l'irrazionale".

Dietro le sue foto, infatti, c'è un lavoro da certosino che inizia con un album di disegni di vere e proprie sceneggiature. 
Poi un gruppo di fedeli collaboratori si incarica di realizzarle, a partire dal suo complice di sempre, il fotografo Marc Domage, capace di sfruttare ogni angolazione per rendere la foto più verosimile e, allo stesso tempo, più assurda possibile. 
Insomma, è come la produzione di un un film, di cui Ramette è il regista.

Qui, ad esempio, come in un fotogramma bloccato, il nostro uomo in nero, sembra contemplare una città in bilico su un cornicione, in un  atteggiamento che ricorda sia il protagonista di un film d'azione che l'eroe romantico di un quadro di Friederich.


Senza mai un capello fuori posto, Ramette si sottopone a pose faticose e non esenti da rischi: in piedi o seduto, sospeso nel vuoto o nelle posizioni più strane.
Niente paura! Anche se non si vede, è sostenuto da piattaforme, da anelli alle caviglie o da supporti rigidi inseriti nei vestiti e da tutta una serie di strutture o- come li definisce lui stesso- di "oggetti" che costruisce, per lo più, da solo e "che servono da punto di partenza per delle micro-finzioni".
E poi, ovviamente, non gli manca un'innegabile dose di sangue freddo.

Come qui, dove, parallelamente all'acqua dell'oceano, attraversa, con la consueta impassibilità, la baia di Hong Kong, quasi fosse appoggiato alla balaustra del balcone di casa:


Nessuno sforzo è troppo per lui, anzi è sempre pronto ad affrontare situazioni quanto meno poco confortevoli.
Come nella serie intitolata "Esplorazione razionale dei fondi marini", dove Ramette si cimenta addirittura con delle foto realizzate in apnea, per cui ha dovuto preparare minuziosamente le sue immersioni al largo della Corsica e ha chiesto la collaborazione di un'intera squadra di sommozzatori.
Ed eccolo, mentre con l'immancabile giacca e cravatta, si orienta sott'acqua, leggendo una carta:


Oppure mentre, tranquillamente seduto, osserva il paesaggio sottomarino:


In un video (qui) Philippe Ramette spiega gli avventurosi processi tecnici che precedono gli scatti delle sue fotografie. 
Ma, forse è meglio non indagare troppo per lasciarsi conquistare dalla magia (e dalle sensazioni vertiginose) delle sue immagini.
Come questa, dove, seduto sul bordo di un precipizio nel Sud della Francia, nella posa del "Pensatore" di Rodin, contempla, con tutta calma, la strada stretta e piena di curve che sembra correre sotto di lui:


"La mia idea- spiega-è quella di rappresentare un personaggio che abbia uno sguardo diverso sul mondo e sulla vita quotidiana. Nelle mie foto non c'è alcuna attrazione per il vuoto, ma la possibilità di acquisire un altro punto di vista".
Con leggerezza, apparente disinvoltura e -perché no?- un pizzico di follia, Ramette  restituisce, nelle sue foto, l'idea di una società che ha perso ogni punto di riferimento.
Con umorismo, ironia e il suo immutabile completo da funzionario modello, cerca di scardinare la nostra razionalità e modificare la nostra maniera di vedere le cose, costruendo un suo universo, insieme bizzarro e familiare, dove si può camminare sotto il mare e la gravità non esiste.
Come solo un grande illusionista o un vero artista sa fare.




martedì 18 novembre 2014

L'Annunciazione nelle Fiandre: il trittico Merode



Ancora un viaggio nella pittura fiamminga?  
Prima di partire, però, sarà meglio armarsi di una buona lente di ingrandimento e, soprattutto, di pazienza perché stavolta entriamo addirittura all'interno del trittico Merode (il nome deriva dagli antichi proprietari), attribuito alla bottega di Robert Campin (ne ho parlato qui) e ora al Metropolitan Museum di New York (qui).

Nei tre pannelli, un giardino, un salotto e la bottega di un artigiano con una finestra aperta su una tipica città delle Fiandre, con le sue case, le sue piazze e i suoi abitanti affaccendati.


Siamo tra il 1422 e il 1430, gli stessi anni in cui, nel cielo della pittura italiana, trascorre la folgorante meteora di Masaccio. 
Qui, però, sembra di essere in un altro mondo, simile, ma non uguale, a quello a cui siamo abituati. 
Nessuna sintesi, nessuna definizione prospettica dello spazio, ma un pullulare di dettagli che la pittura a olio rende vivi e reali.

Nel pannello centrale, è rappresentato l'interno di una casa, e, proprio lì, in un lindo salotto borghese, tra un tavolo e una panca, si svolge niente di meno che la scena dell'Annunciazione. 
Nella stanza, è appena entrato un angelo dalle ali multicolori e dalla veste bianca, con una tale discrezione che la Madonna non se n'è nemmeno accorta. 

Si è inginocchiato con riverenza, e ora, con la mano alzata, cerca timidamente di richiamare l'attenzione. 
Quasi avesse paura di disturbare la Vergine che, seduta per terra in segno di umiltà, è assorta nella lettura di un libro di devozione, avvolto, rispettosamente, in un candido lino. 
Qui a illustrare il momento solenne dell'Annunciazione, non ci sono apparizioni di Dio Padre o della colomba dello Spirito Santo tra nuvole splendenti. 
Però, se guardiamo bene, vediamo che è comparso dalla finestra un minuscolo Gesù Bambino che porta una croce: è il cosiddetto Verbo incarnato, il simbolo per eccellenza dell'Incarnazione. 

I raggi dorati, da cui scaturisce e che passano attraverso il vetro, senza scalfirlo, alludono alla gravidanza verginale di Maria. 
Eccola, dunque, l’apparizione divina che mancava, simbolica, ma allo stesso tempo, talmente concreta da spegnere, muovendo l'aria, la candela ancora fumante sul tavolo.  
E ora, come nella pittura di Jan van Eyck (ne ho parlato qui), sembra che ogni particolare di quella stanza tranquilla nasconda un significato più profondo.
Il bacile di rame pieno d’acqua, l'asciugamano immacolato alla parete o il fiore di giglio nel vaso posato sul tavolo, che ha la dignità di un altare, evocano la purezza di Maria. Le finestre semichiuse la sua vita appartata, la candela spenta sopra il camino la superiorità della luce divina su quella naturale. Perfino i leoni, scolpiti sui braccioli della panca, rimandano al trono del  saggio re Salomone dell'Antico Testamento. 


Nel pannello di destra, è raffigurato San Giuseppe, che, normalmente, non compare mai nella scena dell’Annunciazione.
È vero che i due ambienti non comunicano e che il Santo sembra completamente ignaro dell’evento sacro, tanto che, senza distrarsi, continua il suo lavoro, forando, con una trivella a mano, una tavola di legno, per farne un parafuoco simile a quello che protegge il camino del salotto.
I suoi utensili sono sparsi sul tavolo e per terra, mentre, dalla finestra aperta, si intravede una strada della città. 

Una bottega da falegname come tante, se non fosse per due oggetti, uno sul davanzale e l’altro sul tavolo, collocati in una posizione così evidente da catturare immediatamente l'attenzione. 
Capire cosa siano è facile: sono due banali trappole per topi. 
Capire, invece, cosa ci stiano a fare vicino all'Annunciazione è tutt'altra faccenda!
Per scoprirlo bisogna addirittura scomodare Sant'Agostino e il brano in cui spiega come l’Annunciazione, l’Incarnazione di Cristo e la Passione, non rappresentino nient'altro che una "muscipula diaboli", vale a dire la trappola che, nel disegno divino, si è resa necessaria  per catturare e sconfiggere il demonio.
Ecco, dunque, ancora una volta, un simbolo che assume la concretezza di un oggetto quotidiano. 

Fin qui tutto è chiaro (o, almeno, spero), ma  resta ancora il pannello di sinistra.


In un giardino chiuso da mura, l"hortus conclusus" che allude alla verginità di Maria, sono inginocchiati i due committenti, identificati, grazie agli stemmi nella parte superiore della finestra, come membri di una ricca famiglia di mercanti residente a Malines: un gentiluomo elegantissimo e la moglie con il tipico copricapo delle donne maritate e un rosario di corallo in mano. 
C'è da dire, subito, che la figura della donna è un’aggiunta posteriore. 

Così come successiva è quella dell’uomo col cappello di paglia, che si è fermato rispettosamente sulla porta del giardino che è vestito con l'abbigliamento tipico dei messi municipali di Malines. 
Un messo comunale...questa, poi! 
Certo che in questo dipinto, apparentemente così facile, tutto deve essere interpretato. 
Niente paura: anche qui c'è una spiegazione. 

Il trittico sarebbe stato richiesto alla bottega di Campin prima del matrimonio del committente. 
Solo dopo le nozze, a qualche anno di distanza, Rogier van der Weyden, allievo di Campin, sarebbe stato incaricato di aggiungere le due figure.  
La donna, evidentemente, è la nuova sposa, mentre il timido messo che evoca l'angelo della scena principale, potrebbe annunciare- con la sua sola presenza- una gravidanza, non certo soprannaturale ma, quanto meno, insperata. 

In tal caso, il dipinto non sarebbe che un ex voto di ringraziamento per affidare alla protezione della Vergine Annunciata la nuova famiglia. Probabilmente- viste le dimensioni ridotte (64 cm di altezza per una larghezza totale di 120 cm)-  non era destinato ad essere appeso sull'altare di una chiesa, ma  in un salotto di casa non tanto dissimile da quello raffigurato.
Visto? Con un po' di pazienza, il viaggio è terminato e, come nelle ordinatissime abitazioni fiamminghe, ogni cosa ha trovato il suo  suo posto. 
In questa nitida dimensione casalinga, il mistero dell'Annunciazione non sgomenta più: soprannaturale e vita quotidiana si  mescolano, complessi riferimenti teologici sono nascosti negli oggetti più comuni  e, per rappresentare la sconfitta del demonio, basta  soltanto una trappola per topi.








Per chi voglia approfondire l'interpretazione del Trittico Merode (e la pittura fiamminga in generale), i testi di Erwin Panofsky (qui) e di Meyer Schapiro (che in un saggio straordinario ha chiarito il simbolo della trappola per topi: qui ) rimangono una lettura indispensabile.